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Venezia: Intervista a Andrea Molesini, un'anteprima sul nuovo romanzo "La solitudine dell'assassino"

di Anna Rubbini

Andrea Molesini, pluripremiato come scrittore ma anche poeta, scrittore di novelle per bambini, traduttore ed interprete di tanta letteratura classica e anglosassone, ora in uscita con un nuovo romanzo, “La solitudine dell’assassino”, per Rizzoli Editore.

Chi o che cosa ha ispirato i personaggi del suo ultimo romanzo?

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I personaggi si sono imposti alla mia immaginazione con prepotenza, non li ho cercati. Sono loro che hanno scelto i luoghi della messa in scena, Trieste, una città tragica per antonomasia, e la laguna veneziana. Anche i tre momenti storici dove il loro agire si dispiega e li definisce sono generati dalla loro personalità: il 1944, il 1986 e il 2007.

 

Quali differenze e quali similitudini con la vita reale tra il traduttore Luca Rainer e Andrea Molesini: è forse questo un romanzo, almeno in parte, autobiografico?

​

Forse sì, ma non troppo. Forse Rainer è il mio alter-ego, ma non insisterei su questo punto. Il romanzo è la storia di una grande amicizia tra un uomo sulla soglia dei quaranta e un ottantenne che ha trascorso in prigione gli ultimi vent’anni della sua vita. Tutti e due attraversano una sorta di crisi di identità. Hanno molto da dare l’uno all’altro. Sono due uomini di libri, uno traduce grandi poeti e l’altro è stato un bibliotecario che ha seppellito il proprio dolore nella ricerca, attraverso la lettura, di una via di scampo dalla mediocrità imposta dalla vita associata, e dalla Storia con la S maiuscola.

 

Come nel suo precedente “Presagio”, anche ne “La solitudine dell’assassino” troviamo una struttura narrativa che rispecchia la tragedia aristotelica classica.

Da dove comincia l’idea di una nuova opera, qual è la dinamica compositiva? Viene prima la storia o prima la struttura del romanzo?

​

Vengono prima i personaggi. Sono loro che scelgono il proprio destino, determinato sia dal loro carattere che dalle circostanze spesso arbitrariamente assiepate dal caso, maligno dispensatore di destini.

 

Luoghi che ritornano, Venezia, Parigi, la laguna e le sue isole: quanto incide nella sua immaginazione la sua provenienza, la sua “venezianità”? Da dove attinge la sua ispirazione?

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A differenza di Presagio (Sellerio 2013) e La primavera del lupo (Sellerio 2014), in La solitudine dell’assassino la venezianità c’entra poco. L’ispirazione è un sommovimento emotivo che mi sorprende e governa mentre lavoro. È una sola cosa con il susseguirsi delle parole e delle frasi sulla pagina. I luoghi hanno un’anima. Trieste, la città protagonista del libro, è dotata di una magia malinconica che ben si sposa con il desiderio prorompente di riscatto di Malaguti, un uomo innamorato della vita a dispetto del suo passato tragico.

​

Anche i riferimenti simbolici sono ricorrenti: il Tempo, la Verità, in questo romanzo soprattutto il Caso sono “presenze” sottese alla narrazione. Nella biografia del suo sito IT, parlando di racconti per ragazzi, ha detto che l’oggetto delle sue narrazioni è “un fiume di ossessioni”.  Lo è anche il Tempo? E per lei un valore come la Verità?

Lo scrivere ha davvero a che fare con il “bisogno di dire il vero”?

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Nella vita associata mentire è d’obbligo. Non c’è relazione umana che non conosca piccole e grandi bugie. La poesia esiste per dire il Vero, anche se non sappiamo bene cosa sia. In quanto al Tempo… non credo proprio di essere stato il primo a chiamarlo “la materia di cui siamo fatti”.

 

A un certo punto del romanzo, Diana, la sorella di Rainer, suggerisce un escamotage, un giro in barca per sciogliere il ghiaccio con il protagonista, l’assassino: “o ti butta in acqua o ti apre il suo cuore!” Cielo e mare, elementi talvolta ostili, e uno spazio ristretto come quello di una barca, sono capaci di unire o separare irreversibilmente.

Che rapporto ha con il mare? Come nel romanzo, “senza il mare la vita non vale?”

​

Il mare è sempre stato un nemico dell’uomo, è il grande nemico di Odisseo, l’uomo molto odiato. Ma è anche il luogo senza confine (apeiron) dove si va per scoprirsi, e ritrovarsi. Conrad lo definisce così: «Il mare non fu mai amico dell’uomo, non fu mai fedele verso alcuna razza, alla maniera della terra generosa; è impenetrabile, senza cuore, ignora compassione, fede, legge, memoria».

 

Rainer dice di sé: “Ero stato invitato a scrivere. Ancora una volta la vita aveva deciso per me” E l’assassino ha conosciuto il suo biografo nelle vesti di traduttore.

Anche lei è diventato uno scrittore casualmente o è quello che avrebbe voluto fare?

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Scrivere è una scelta, difficile e meravigliosa, lo è stato per me e lo è per Luca Rainer. E a volte le nostre scelte, credo valga per tutti, o almeno per molti, sembrano essere decise dal fato, più che dalla nostra volontà. I talenti, poi, sono distribuiti, piuttosto arbitrariamente, dice la Tradizione, dal padrone della vigna. C’è una gioia immensa nello scrivere, è un modo molto articolato per recingere il dolore.

 

Il gorgo di pece della storia si incentra sulla figura di Anna, ragazza ebrea diciottenne in fuga dai nazisti, rifugiata come il giovane Carlo nell’isola di Sant’Erasmo.

Così lei originalmente la descrive: Anna è una poesia, non si racconta la poesia, la si intuisce forse, fiutandone il potere: chi le ha ispirato questa romantica figura?

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È venuta da sé. Non so da dove.

 

Sempre nella sua biografia lei dice che sono state fondamentali le letture che “l’hanno nutrita”: quali di queste sente più vicine e affini alla sua opera letteraria e perché? Qual è il suo libro preferito e quali gli autori?

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Omero, Shakespeare, Rilke giocano tra le righe di La solitudine dell’assassino. Ma c’è molto altro… tra l’altro non va dimenticato che in limine al libro, ci sono due frasi, una di Stendhal, Je ne puis pas donner la réalité des faits, je n’en puis présenter que l’ombre, l’altra di Proust, Pour écrire ce livre essentiel, le seul livre vrai, un grand écrivain n’a pas, dans le sens courant, à l’inventer puisqu’il existe déjà en chacun de nous, mais à le traduire. Le devoir et la tâche d’un écrivain sont ceux d’un traducteur.

 

Nel romanzo Presagio c’era una “morale” storica e sociale che invitava a riflettere sulla società italiana contemporanea, probabilmente guidata da persone che non hanno le idee chiare su dove andare.

Nel suo ultimo romanzo, invece, la paura ha trasformato il protagonista – ragazzo sotto tortura – in traditore, ma c’è un riscatto finale dato dal coraggio delle proprie scelte che rende liberi.

Che ruolo ha in tutto questo il Caso e qual è, se c’è, la morale sottesa a questo romanzo basato fortemente su una prova d’amicizia e sul coraggio di rivelarla?

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La solitudine dell’assassino è un inno alla vita, è la storia di una grande amicizia: l’indagine sull’umano soffrire e gioire non può che riconoscere al Caso il ruolo di dispensatore, spesso capriccioso, di destini.

 

Infine, cos’è stato per lei il Premio Campiello: un punto d’arrivo, di partenza, un traguardo?

Ha cambiato qualcosa nel suo porsi di fronte a questo lavoro?

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È stata una soddisfazione, in buona misura inaspettata. Non mi sembra che abbia cambiato il mio modo di scrivere, o l’immagine che ho del mio lavoro.

​

- Di seguito la versione integrale della video dell'intervista -

Andrea Molesini nella sua casa a Venezia per l'intervista con la redazione di AARTIC

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