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Le interviste a personalità conosciute ed emergenti, protagoniste del mondo della Cultura e delle Arti

"CINEMA E TATOO" : Intervista a STEFANO MARCHESINI 

di Valerie Tosi

 

ValerieTosi con Stefano Marchesini

Il mio incontro da intervistatrice con Stefano Marchesini, maestro tatuatore bolognese, mi lascia ancora una volta sorpresa e intellettualmente stimolata. Essere la moglie di un fondatore della cultura del tatuaggio a Bologna ti permette di osservare da una posizione privilegiata l’evoluzione del gusto e del significato del tatuaggio, avendo come punto di riferimento un artista che ne ha indagato a lungo e con dedizione le radici storiche, culturali e semiotiche, adattandole al proprio genio artistico e alle proprie inclinazioni figurative. Stefano intraprende studi di architettura completandoli con un diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Fin da subito capisce che le possibilità espressive offerte dalla pelle come superficie pittorica sono la strada che egli vuole intraprendere e nel 1990 apre il suo primo Tattoo studio. Contemporaneamente all’attività di tatuatore milita dall’89 al 2005 nel C-Voltaire, un’associazione di artisti che porta l’arte nei circoli più studenteschi e popolari. Oggi, sottratto al suo tempio e ai suoi strumenti di tortura, accetta di parlarci del rapporto tra tatuaggio e cinema, ripercorrendo quelli che per lui sono stati i momenti salienti nella storia di questa accattivante relazione.

 

Pensi che il cinema sia una forma di comunicazione adatta a trasmettere la cultura del tatuaggio?

Sì, o per lo meno lo è stata. Nel cinema attuale il tatuaggio è soprattutto un elemento connotatore dei personaggi. Il cinema del passato era più interessato a presentare a un pubblico questa tematica affiancandola a una storia e ad una certa dose di esotismo e magia, che richiamavano spesso paesi e culture lontane. Il tatuaggio era un qualcosa affascinante che lasciava stupito e perturbato uno spettatore inesperto.

Oggi il tatuaggio è uno strumento che il cinema può permettersi di adottare in maniera più spontanea, perché è un linguaggio entrato a far parte della cultura di massa. Quasi chiunque oggi è in grado di distinguere un māori da un giapponese o da un traditional, americano o russo che sia.

 

Quali film a tuo parere sono riusciti per primi a cogliere al meglio le potenzialità espressive del tatuaggio?

Penso a "The illustrated man", film diretto da Jack Smight e tratto dai racconti di Ray Bradbury.

Il protagonista, interpretato da Rod Steiger, rievoca i passaggi fondamentali della sua esistenza attraverso l’animazione dei tatuaggi che ricoprono il suo corpo. Egli, lavorando in un circo, un giorno aveva conosciuto Felicia, una donna dai poteri magici che lo aveva coinvolto in una relazione d’amore e che lo aveva tatuato con le proprie mani. Questa donna era poi scomparsa improvvisamente, lasciandolo con il corpo completamente “illustrato” dalle figure più strane. Questi tatuaggi affascinano e quasi soggiogano chiunque li osservi. Memoria, tatuaggio, soprannaturale si uniscono. Siamo alla fine degli anni Sessanta e l’idea, se pur con effetti speciali grossolani, è fantastica perché qui il disegno sulla pelle non imita solo la pittura ma il cinema stesso, le immagini prendono vita come cartoni animati. L’effetto rimanda alle sperimentazioni cinematografiche di Jean Cocteau, come "Le sang d’un poète" del 1930.

Sul fronte orientale abbiamo Irezumi, "lo spirito del tatuaggio", girato nell’81 da Yoichi Takabayashi. Questo film merita particolare attenzione perché il tatuaggio è il tema dominante. L’amante di un potente uomo d’affari giapponese cede alle sue richieste di farsi tatuare la schiena da un celebre maestro e costui le spiega che la pelle è meglio disposta ad accettare il tatuaggio se l’esecuzione è contemporanea all’amplesso. Quindi la donna si lascia tatuare dal maestro coricata sul corpo del giovane allievo. La trama dedica un ampio spazio al percorso di apprendistato del giovane e al suo legame con il maestro tatuatore, oltre che al rapporto d’amore con la donna a cui egli stesso farà un tatuaggio. Il titolo del film per l’Occidente è stato reso con “Irezumi”, parola che letteralmente significa “inserire inchiostro” ma che inizialmente designava un tipo di tatuaggio con cui venivano marchiati criminali, schiavi o prigionieri di guerra. Sarebbe stato forse meglio usare il termine “gaman”, che significa “pazienza, sopportazione” e connota un tatuaggio decorativo, non punitivo.

Questo film è un omaggio alla tradizione, alla filosofia e alla poesia del tatuaggio giapponese e al rispetto, al sacrificio e alla dedizione che stanno dietro il lavoro di un grande maestro.

Abbiamo poi "Once were warriors", del ’94, dello neozelandese Lee Tamahori. La tesi esposta dal regista è il contrasto tra la dignità del moko, tradizionale tatuaggio sul volto, che nelle generazioni passate si portava dietro le connotazioni familiari e la memoria degli avi e la delinquenza e l’immoralità delle nuove generazioni, che del moko conservano solo la connotazione estetica legata alla sua spaventosità, come mezzo per riconoscersi appartenenti alla stessa gang e incutere paura.

 

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