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Le interviste a personalità conosciute ed emergenti protagoniste del mondo della Cultura e delle Arti

Intervista a Sandro Natalini

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di Martina Pazzi

 

Quella tensione, drammatica, insita nel gesto di voltare pagina. E poco importa se la pagina sia su supporto cartaceo o digitale: la studiosa americana Barbara Bader insisteva sulla natura artistica, camaleontica, di una drammaticità quasi teatrale della pagina, una pagina da sfogliare fisicamente o virtualmente, propria dell’albo illustrato. Di picture book, così come del mestiere di illustratore, scrittore e progettista editoriale, abbiamo parlato con Sandro Natalini, uno dei nomi più illustri nel panorama contemporaneo dell’editoria e della letteratura per l’infanzia. Una laurea in Progettazione grafica all’Isia di Urbino e una, specialistica, in Design della comunicazione all’Isia di Faenza, un esordio come grafico progettista di Vogue per Condé Nast Italia, una prolifica attività di illustratore, poi, con l’inizio con Giunti, Loescher e Raffaello, e di autore e narratore, collaborando con case editrici nazionali ed internazionali, ottenendo importanti riconoscimenti internazionali, come il premio americano Oppenheim Best Book nel 2009. Docente di “Illustrazione” presso l’Isia di Urbino, è stato coordinatore didattico dei corsi post-diploma ad indirizzo Grafico Multimediale della Comunità Europea, ed è oggi dottorando di ricerca presso l’Università per Stranieri di Perugia, dove sta elaborando una tesi dottorale sui percorsi dell’albo illustrato in ambito nazionale ed internazionale. È proprio il picture book, termine coniato dalla critica per designare l’albo illustrato, l’oggetto della presente intervista, alla luce di un particolare approccio, quello dell’autore, all’ambito della comunicazione e dell’arte visuale, di una particolare formazione artistico-culturale, della progettazione editoriale sulla base delle richieste della committenza, delle norme del mercato e del target di riferimento. E, non da ultimo, del contesto di ricezione dell’opera e del messaggio artistico che quella veicola. Perché quel “camaleonte in attesa di essere definito”, come voleva David Lewis, apre diversi percorsi all’ermeneutica.

 

M. P.: Sei un illustratore di chiara fama nel panorama contemporaneo, nazionale ed internazionale, dell’editoria per ragazzi. I tuoi libri, editi, tra gli altri, per i tipi di Fatatrac, San Paolo, Everest, La Margherita, Tundra Books, godono di un ampio successo di pubblico e sono stati tradotti in diverse lingue. Nell’ultimo anno, per Editoriale Scienza, è uscito "La storia della vita", di cui sei autore, oltre che illustratore, e in cui racconti dell’origine delle prime forme di vita sulla terra, “dal brodo primordiale ai nostri giorni”: come ti rapporti con l’ambito dell’arte visiva e, più specificamente, con quello della comunicazione visuale e della progettazione editoriale?

 

S. N.: Per quanto mi riguarda, ho sempre pensato che la professione di un illustratore fosse più legata ad un discorso di comunicazione visiva, che non, propriamente, di arte visuale. La comunicazione è, infatti, il fattore preponderante nell’ambito dell’illustrazione. Ritengo che il lavoro dell’illustratore abbia molti punti di convergenza con quello dell’attore: entrambi devono, infatti, sapersi calare in vari ruoli, a seconda delle richieste della committenza. In generale, invece, si è soliti pensare alla professione dell’illustratore unicamente in relazione alla sua cifra stilistica, declinabile in vari ambiti, pur mantenendo le proprie peculiarità. Da questo punto di vista, penso sia preferibile che, alla base di questa professione, si ponga un lavoro di progettazione tout-court: preferisco, insomma, soprattutto negli ultimi anni, vendere un progetto editoriale completo. La prerogativa più importante è riuscire ad orchestrare tutte le componenti del progetto, dall’illustrazione al formato, dalla mise en page al carattere. Per dirla con Maurice Sendak, «un picture book è una cosa tremendamente difficile da realizzare, molto simile ad una forma poetica complessa, che necessita di sintesi e controllo continui». A differenza di quanto generalmente si pensa, infatti, l’illustratore non è soltanto “una bella mano”, un artista con una propria cifra stilistica: egli è sempre o quasi sempre subordinato a un testo. Deve partire da un testo. Non è un caso, se, anche a livello etimologico, il verbo illustrare, nell’accezione di “dare lustro”, con un immediato rimando allo spagnolo “iluminar” (illustrare, miniare. Il termine “iluminador” designa, appunto, la figura del miniatore), circoscriva tutto un corredo di figure, tutt’altro che ausiliario, che amplia la significanza di un testo, svolgendo una funzione chiarificatoria, che oggi si è evoluta da un punto di vista narrativo. Nel mio caso specifico, mi rapporto con l’ambito della comunicazione visuale, tenendo sempre in considerazione il “recinto stretto” dei parametri specifici dati dalla committenza, dal target di riferimento e dall’imprinting comunicativo che intendo dare al progetto al quale sto lavorando. È proprio da quel “recinto stretto”, che nasce la sfida professionale. Recinto, che risulta allargato in campo artistico propriamente detto: l’artista è artefice di un’opera meta-narrativa rispetto alla quale il fruitore dà essenzialmente una sua interpretazione. Ciò nonostante, anche il picture book è considerato un’opera meta-narrativa, che orienta il lettore nella sua ricezione, attraverso le molteplici componenti come il rapporto testo-immagine e l’apparato paratestuale.

 

M. P.: Insegni “Illustrazione” all’Isia di Urbino dal 2000. Nel campo della sperimentazione, anche avanguardista – uno dei punti-cardine, come sappiamo, dell’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, rispetto ad un’impostazione strettamente accademica –, quanto peso credi abbia la tradizione artistica, il background storico-culturale nella formazione delle giovani, talentuose “belle mani”?

 

S. N.: Insegno “Illustrazione” all’Isia di Urbino dal 2000, l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. Il Corso Superiore per Arte Grafica, annesso all’Istituto Statale d’Arte di Urbino, fu fondato negli anni Sessanta, trasformandosi ben presto in corso quadriennale equiparato all’Accademia di Belle Arti, su volontà di Francesco Carnevali, allora direttore della Scuola del Libro di Urbino e di Albert Steiner, cofondatore del Corso Superiore per Arte Grafica. L’Isia di Urbino nasce propriamente nel 1974, su decreto del Ministro Misfatti: annovera, tra i fondatori del primo comitato scientifico didattico, tra gli altri, Alfred Hohennegger, Michele Provinciali e Massimo Dolcini. Peculiare, il fatto che la meravigliosa biblioteca del duca di Montefeltro ispiri ancora oggi la progettazione grafica nell’editoria contemporanea: il mecenatismo culturale del duca, che si attorniava anche di coloro che lavoravano alle arti minori, induce a riflettere sulla ricerca del bello legato anche a tutti quegli aspetti ritenuti, appunto, secondari, tra cui l’estetica del libro, così radicata in questo territorio. Negli ultimi anni sono emerse delle attività nuove nel campo della comunicazione visiva, ma è proprio all’Isia e alla Scuola del libro di Urbino che, in qualche modo, possiamo ritrovare le radici culturali e le peculiarità professionali tipiche di questo territorio. All’Isia di Urbino, infatti, non si “coltiva solo la bella mano”: si studia al contempo progettazione grafica, fotografia, impaginazione, ai fini del conseguimento di una formazione poliedrica e solida, poi spendibile nei più disparati campi della comunicazione visiva. Un altro aspetto fondamentale dell’Isia è che, già a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, l’Istituto per le Arti Grafiche sia stato (ed è tuttora) strettamente connesso alla sperimentazione iconica: qui non si apprendeva “ad usare l’acquerello” in modo classico, ma a sperimentare varie tecniche, sganciandosi sempre di più da un’impostazione prettamente accademica. Attraverso una forma di alchimia, un giusto dosaggio tra le tecniche, l’allievo raggiunge, infatti, un proprio tono-voice, un personale imprinting stilistico. Anche i laboratori che faccio con i bambini, sono improntati con un intento ludico, appassionante e coinvolgente, un po’ come gli esperimenti di alchimia.

 

M. P.: Letteratura per l’infanzia, libri per ragazzi, albi illustrati: un genere testuale e paratestuale che si indirizza ad un target preciso, abbracciando diverse fasce d’età e rivolgendosi, sempre di più, anche ad un pubblico di adulti: il tuo esordio si è prefisso un obiettivo specifico, quanto al pubblico di riferimento dei tuoi potenziali lettori? Nello specifico, quali sono le componenti che entrano in gioco nella progettazione di un picture book?

 

S. N.: Bisogna partire dal fatto che i libri per ragazzi siano quello più richiesti dal mercato editoriale odierno, in Italia, ma anche fuori dai confini nazionali. In Francia, ad esempio, ormai da svariati anni, l’illustrazione ha fatto il suo ingresso in diverse tipologie editoriali, e questo anche nel settore degli adulti, dal giornale fino a esempi di poesia illustrata, diversificando l’approccio educativo visivo. Ho esordito come grafico progettista presso Vogue Italia (edizioni del gruppo Condé Nast), però, parallelamente, ho iniziato anche il mio percorso professionale nel campo dell’illustrazione editoriale. Il target è strettamente connesso alle richieste dell’editoria: per quanto mi riguarda, illustro e scrivo libri per una fascia d’età che va da bambini molto piccoli a bambini di dieci-undici anni. Ma, specie dagli ultimi dieci anni, il mercato dell’illustrazione, complice il pop-surrealismo americano, si è consolidato anche per un pubblico di adulti. Più specificamente, il picture book, termine usato nella critica internazionale per designare l’albo illustrato, è, per ricorrere alla definizione che ne dà la studiosa americana Barbara Bader, «testo, illustrazione, design progettuale, un prodotto di artigianato e al contempo commerciale; un documento sociale, culturale, storico; in primis un’esperienza per un bambino. La sua natura artistica si basa su un rapporto di interdipendenza di parole e immagini, sul simultaneo dispiegarsi della doppia facciata, sulla tensione drammatica del gesto di voltare pagina, nella specificità della sua natura, esso racchiude possibilità illimitate». Proprio il picture book è ora oggetto di studio della tesi dottorale sui percorsi dell’albo illustrato, alla quale sto lavorando presso l’Università per Stranieri di Perugia: ne sto ricostruendo, da un punto di vista semiotico ed iconologico, l’evoluzione negli ultimi anni, valicando i confini nazionali, basandomi sulle sue prerogative e sulle svariate possibilità comunicative insite in questo prodotto editoriale, concepito dalla critica internazionale come un’opera letteraria e meta-narrativa. Per David Lewis l’albo illustrato non può essere racchiuso in un genere canonico, perché esso assorbe elementi compositivi da tutti i generi letterari, divenendo ogni volta un’opera a sé e adattandosi alle varie realtà comunicative e ai vari orizzonti d’attesa del lettore, come fosse «un camaleonte in attesa di essere definito». Dal punto di vista paratestuale, il picture book è strettamente correlato alle evoluzioni tecniche e tecnologiche legate alla stampa e ai nuovi supporti multimediali, anche se forse è ancora nella carta che trova la sua ragion d’essere, ovvero nelle fustelle, nei tagli cartotecnici, negli inchiostri profumati, nei supporti opachi che si alternano a quelli lucidi, fino ad arrivare ad opere vere e proprie di ingegneria cartotecnica date dal pop-up. Tutto questo al fine di rendere ogni albo illustrato un percorso sensoriale a parte, in cui il lettore in prima persona è chiamato ad interpretare e rielaborare individualmente, rispetto alla sua sensibilità, all’età, al background culturale.

 

M. P.: Dunque il picture book si configura come il prodotto editoriale che, per antonomasia, si sostanzia con un rapporto di dipendenza reciproca tra testo e immagine... In quale circuito comunicativo può essere inserito questo “camaleonte” dell’editoria contemporanea?

 

S. N.: L’editoria del picture book fa parte di un complesso circuito comunicativo tra emittente e ricettore. Circuito in cui compartecipano vari elementi: in primis la scrittura e l’illustrazione, ma anche una serie di elementi che possono variare da storia a storia e che sono incentrati sul design del prodotto: supporto, inchiostri, elementi cartotecnici, sensoriali e, non da ultimo, quelli riguardanti la cifra stilistica vera e propria dell’illustratore (il segno, l’uso del colore, piuttosto che la tecnica...). L’elemento tipografico, il testo inteso come risorsa semiotica, può diventare un’esperienza molto interessante da un punto di vista estetico ed artistico, esperienza che può riagganciarsi anche alla poesia visiva: penso, a tal proposito, alle raffinatissime produzioni di alcune edizioni francesi contemporanee. Il picture book pensato per un target di adulti è un prodotto editoriale che si muove in modo autonomo da Paese a Paese e che è suscettibile di traduzione in varie lingue: può presentare, però, allo stesso tempo, anche un particolare orientamento di gusto, che lo vincola al suo territorio di appartenenza. L’interdipendenza tra testo e immagine è cambiata nel tempo: riuscire a giocare con questo binomio, con l’equilibrio di queste due componenti, diventa una sfida per chi si voglia cimentare con questo prodotto editoriale. Se il fattore didascalico nel campo dell’illustrazione è, oggi, più legato ai sussidiari e ai libri di testo, nell’editoria di qualità ci si rapporta con un rapporto tra testo e immagine del tutto nuovo, rapporto che accresce sempre di più un livello educativo alla cultura visiva, nel quale, rispetto ad altri Paesi (penso ad esempio ancora alla Francia, dove questo è ormai consolidato, come nel caso delle già ricordate poesie per adulti, corredate di apparato iconografico), siamo un po’ in ritardo.

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