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Venezia: Intervista a Vittorio Urbani, Direttore Artistico di

< NUOVA ICONA >

di Anna Rubbini

In un momento storico particolare quanto irrisolto, dove molte attività si eclissano all’ombra di una crisi che toglie risorse specie in ambiti accessori e voluttuari, esiste a Venezia una Associazione Culturale che con il suo fondatore Vittorio Urbani da più di vent’anni segna la scena dell’Arte Contemporanea italiana e internazionale.

Parliamo di < Nuova Icona >, un’Associazione “no profit” sorta nel 1993, per spontanea iniziativa di un gruppo di privati residenti, allo scopo di promuovere gli artisti e i loro progetti nell’intento di legarli alla comunità ed offrendo loro l’opportunità di avere il supporto per dialogare con il pubblico di questa singolare e straordinaria città.

<Nuova Icona>, dalla sua fondazione, ha organizzato innumerevoli mostre, di rilievo nazionale ed internazionale, avendo di volta in volta spazi espositivi adatti al progetto, e  come unica sede espositiva “stabile” l’Oratorio di San Ludovico, una suggestiva  chiesetta che appartiene ad un Ente veneziano.                        

Da metà anni Novanta, inoltre, Vittorio Urbani, ideatore e direttore artistico di Nuova Icona, realizza progetti a fianco della  Biennale di Venezia, concorrendo con i Curatori e le Autorità straniere alla realizzazione di progetti di partecipazione ufficiale delle Nazioni alla manifestazione. Negli anni queste collaborazioni hanno riguardato, in primis l’Irlanda, poi la Turchia, proseguendo con la Scozia, la Bulgaria, l’India, la Finlandia, l’Azerbaijan, il Libano, il Galles, la Palestina, l’Iraq, le Repubbliche Centro Asiatiche, sino ad arrivare negli ultimi anni ad una svolta, con il sorgere di un’apertura delle relazioni con gli stati orientali, rivestendo il tradizionale ruolo diplomatico di Venezia in direzione di una crescita dei rapporti con il Medio Oriente.

Recentemente, grazie ai contatti con la scena della cultura e dell’Arte Contemporanea, i progetti estesi allo scambio di “residenze” con gli Stati Esteri hanno permesso all’Associazione di diventare un’organizzazione riconosciuta e con una propria originalità operativa autonoma che le consente di avere un’identità autentica ed insolita, essendo la più antica organizzazione non profit dedicata alle arti visive contemporanee a Venezia, riuscendo però a mantenere un approccio sperimentale e peculiare rispetto alla scena artistica internazionale.

Abbiamo voluto incontrare Vittorio Urbani proprio in occasione di una delle innumerevoli mostre allestite a Venezia nella  sede della nuova Magazzino Gallery  di  Palazzo Contarini Polignac per la presentazione dell’artista turca Asli Kutluay.        

A.R.: Come mai negli anni 90, per l’esattezza nel 1993, un medico decide di avvicinarsi all’Arte Contemporanea?

​

V.U.: Un ”Dottore”, in fin dei conti, è un privato cittadino, che fa il medico così come poteva fare l’architetto, il macellaio o l’insegnante di musica alle scuole medie; allora ero in un gruppo di amici che a un certo punto si sono ritrovati a considerare che Venezia non offriva opportunità d’interagire con l’Arte Contemporanea, con il pubblico, questo è stato il nostro problema. Venezia aveva allora Palazzo Grassi che virava verso le grandi mostre “Blockbuster”, le gallerie storiche come Cavallino e Capricorno che in pochi anni avrebbero poi ceduto o chiuso, e la Biennale che è un po’ un recinto chiuso o perlomeno non interattivo con la città.

E così noi, trovandoci a vivere a Venezia e ad avere questo interesse un po’ naif, lo riconosco, ci siamo organizzati “a fare con gli artisti”..., in principio questo aveva proprio una definizione generica, non c’era l’idea di galleria, né dell’associazione, invece poi, è stata proprio la burocrazia a guidarci, inizialmente operando in uno spazio che avevo a disposizione alla Giudecca.

Abbiamo chiesto i permessi per aprire una Galleria commerciale, ma non era quello il nostro compito, quindi presto si è posta la tematica della Associazione Culturale, che era allora una struttura abbastanza nuova in Italia, era una formula che offriva facilitazioni gestionali e fiscali e ha avuto un momento di successo.

Ma nella totale mancanza di nutrimento da parte della società di queste iniziative, mentre io credevo originariamente che molte altre iniziative simili sarebbero venute dopo di noi, effettivamente come sono venute hanno anche chiuso!

Prima o poi, i ragazzi usciti dall’Accademia o dalla Scuola d’Arte, o dell’Università, trovandosi a lavorare anche fruttuosamente a Venezia in questo ambito, ricevevano la chiamata del padre che diceva loro: < cosa fai a Venezia? C’è qui a casa il direttore della banca che mi chiede di te...>, per dire, insomma, che la vita reale prima o poi ti “succhia”, poche attività permangono.

Tra queste voglio citare solo S.a.Le, che mantiene un’eccellenza di proposte ed anche di idee, soprattutto di coinvolgimento nel sociale, però molte altre sono nel frattempo scomparse.

​

A.R.: A un certo punto però è cambiata la dimensione del vostro lavoro, si è estesa, vuoi perché a Venezia c’era la Biennale e l’internazionalità è un po’ indotta, vuoi che questa città è internazionale di per sé…

​

V.U.: Si, in effetti l’attività si è estesa, ma soprattutto perché gli artisti ci hanno trascinato!

Per esempio, in questo momento usiamo fare le mostre secondo un progetto, secondo le occasioni, secondo francamente anche il budget disponibile…: si può andare ad affittare il piano di un Palazzo o ad allestire un uno spazio abbandonato o realizzare una performance all’aperto a costo zero!

Ricordo che due artisti inglesi, più o meno quindici anni fa’, Daniel Harvey e Heather Ackroyd, mi avevano chiesto uno “spazio sacro”. In un primo momento ho avuto il “fumetto con il teschio" sulla testa per la collera, avendo già semplicemente una galleria a disposizione, sentimenti che spesso vengono quando si ha a che fare con gli artisti, tanto amati quanto odiati. Dopo però mi è venuto in mente che nell’altro mio lavoro di medico, andando a fare una visita a domicilio ero entrato per sbaglio in una chiesetta. Chiesi ai residenti cosa fosse e venne fuori che l’abitazione era stata in realtà l’appartamento di un prete morto anni prima e dunque sorgeva sopra la chiesa. Sono dunque risalito faticosamente alla  proprietà,  una istituzione veneziana caritatevole che si chiama IRE, che ci ha dato in concessione per un modesto affitto annuale di cui siamo grati, questo spazio -allora abbandonato- che è l’Oratorio di San Ludovico.

Ecco un esempio di come un artista ti prende per i capelli ma ti porta a fare qualcosa di buono, che, nel tempo ricordi con riconoscenza. Se non fosse stato per loro mai mi sarei messo a cercare spazi alternativi, tantomeno a chiedere in affitto chiese! Cose, infatti, che di solito fanno i vescovi e non certo i pediatri…

​

(N.d.R.) Anche se tra i Vescovi c’è chi vuole l’attico e chi si accontenta …

​

Queste sono le diverse strade che abbiamo avuto, come dicevo, è nata l’Associazione culturale che è la struttura che abbiamo tuttora, da galleria come luogo espositivo che eravamo, con consapevolezza e trasformazione graduale ci siamo molto allontanati.

Se devo paragonarmi a una qualche figura, mi vedo come il manager teatrale dell’’800, quello che cura la ballerina che ha la crisi isterica e che al contempo cerca di trovare i soldi del riscaldamento del teatro e così via.

E’ un insieme di competenze bizzarre e anche pratiche che non mi sarei mai aspettato; in maniera un po’ ingenua, il borghese che si approccia a fare qualcosa con gli artisti pensa appunto di chiedersi come fare delle pareti vaste con un certo tipo di pitture o come fare a realizzare delle fusioni in bronzo…In realtà questo è stato molto raro, per lo più c’è da risolvere  il problema del videoproiettore che non è adatto a quel tale formato, o quello delle persone di custodia che si sono ammalate il giorno dell’inaugurazione e tante piccole cose pratiche, di cui però sono grato. E’ stata una specie di Università della pratica: dal chiodo, al video o videoarte, od anche alla “commissione”, cosa di cui vado orgoglioso. Spesso, infatti, siamo stati in grado di chiedere all’artista di fare qualcosa per noi, quindi di avere l’occasione di presentare lavori nuovi, come quello recente della modenese Alberta Pellacani, che ha realizzato un video in lunghi mesi di riprese a Venezia su nostra richiesta e per l’Oratorio di San Ludovico, in mostra fino al 20 giugno scorso.

​

A.R.: Com’è l’approccio con gli artisti di Nuova Icona, cosa determina la loro scelta?

​

V.U.: In realtà è molto varia, infatti una cosa di cui siamo stati criticati è la “Linea”, nel senso che ci si aspetta che, più che in uno spazio no profit, in una galleria, ci si aspetta che ci si occupi di Arte Brut piuttosto che di Astrattismo e così via.

Ho presente Gallerie che ho amato e ammirato, di cui siamo stati amici, per citarne una mi viene in mente la Galleria Belvedere di Milano in cui, non è una critica ma è la realtà, le mostre si assomigliavano tutte!

Lei aveva un gusto molto rigoroso, ricordo ad esempio Caracciolo, pittore che faceva opere molto colorate, e che ho visto da Valeria (Belvedere) con una mostra totalmente in bianco e nero mai fatta da nessun’altra parte, sembrava proprio che lui si adattasse allo spirito della galleria. Però questo và bene, anzi, è così che una buona Galleria “sfida” gli artisti facendoli migliorare o anche peggiorare, riferito a Caracciolo secondo me era meglio prima di quello "belvederiano"…

Nel nostro caso, quindi, io ho sempre veramente voluto “non avere una Linea”, perché penso che, per dirla con uno slogan benettoniano, il mondo è pieno di colori e non ce né uno di migliore, c’è quello che piace a te!...

​

A.R.: Quindi la sua è una scelta individuale, personale?

​

V.U.: Si, c’è tutto, tutto ribolle, perché non viviamo un momento di Scuola, di movimenti, è un momento di “caos“, sull’orlo delle guerre e delle competizioni internazionali; è un momento in cui l’Europa perde energia, consapevolezza, ed è un momento che io penso sia molto pericoloso… non so come saremo tra dieci anni!

Quindi, perché seguire una Linea artistica? Per questo abbiamo avuto cose di tutti i tipi: dalla vecchia pittrice figurativa, a opere dai piccolissimi dettagli di pittura quasi come quelle dei maestri olandesi dell’ ‘600, fino al giovane artista che semplicemente quasi tira via …

Gianni Caravaggio, tanti anni fa, tolse una “badilata di erba" da un giardino pubblico e la trapiantò nel mio giardino, sull’orlo della “non Arte", neanche della performance perché non c’era niente da vedere perché il fatto l’ha compiuto autonomamente con un badile prestato da me... L’ erba del giardino pubblico è il lavoro più “inapparente” che io abbia esposto!...Bisognava avvicinarsi alla gente e indicargli la zolla d’erba, che ricambiandoti con un’espressione inebetita, innescava la spiegazione della storia dell’opera ….

​

A.R.: Lei come si definisce? Coraggioso? Intraprendente?...Un gallerista hai detto di no…

​

V.U.: Non saprei, no, non sono un gallerista, sono una specie di impresario. Effettivamente lottiamo per fare le cose, anche sul personale, spesso ospitiamo gli artisti nelle nostre case per fare in modo reciprocamente di risparmiare le spese notevoli dell’ospitalità alberghiera veneziana. C’è quindi molto di fatto in casa, anche cene con gli artisti, è un vivere insieme che è anche bello e credo che abbiamo fatto delle cose, lo dico con orgoglio, che non hanno fatto le Istituzioni, perché queste non chiamano una Alberta Pellacani e le commissionano un video a Venezia, anche se potrebbero farlo con soli tremila euro di budget/con poche migliaia di euro.

I Musei non ci arrivano, anche se muoiono dalla voglia di farlo!

Viceversa, i giovani artisti non hanno occasioni, e la galleria commerciale non si può permettere di fare le cose che facciamo noi, nemmeno eventi come la zolla di terra di Caravaggio, diventato poi un artista di un certo successo tant’è che è ora seguito da Tucci Russo, fondato e noto gallerista commerciale che, se crede in un artista, sicuramente è motivato.

Questa è però un’eccezione perché normalmente un galleria commerciale non si può permettere certe operazioni in quanto il pubblico vuole piuttosto le piccole opere con le lettere in sequenza di Alighiero Boetti, sono queste le cose che si vendono. Dunque, tra il "vendere” della galleria e il “rappresentare” del  complesso museale c’è un grosso buco nero nel sistema culturale italiano dell’arte Contemporanea, dove noi modestamente qualche cosa facciamo, ai posteri la sentenza ma noi intanto facciamo…

E’ quindi nel “fare” la nostra cifra e nel fare c’è l’errore: c’è l’ingenuità, c’è la mostra “imbarazzante” che ripensandoci non rifaresti, però è fatto sempre con entusiasmo , credendoci;  ed anche se questo non perdona l’errore culturale, non sempre puoi saperlo, l’errore culturale lo vedi a posteriori. Adesso neanche i nazisti farebbero la mostra dell’Arte degenerata perché vale milioni di dollari, voglio dire perfino delle cose importanti della storia, col senno di poi, forse avverrebbero in maniera diversa…

​

A.R.: L’iniziativa di diventare nel 1995 commissario organizzativo per la partecipazioni di alcune nazioni straniere alla Biennale com’è avvenuta?

​

V.U.: Il lavoro alla Biennale è capitato un po’ per caso, un po’ per scherzo… Ho trovato nella segreteria telefonica dello spazio che allora usavamo come sede dell’associazione e che adesso è diventato semplicemente “casa”, un messaggio di uno che apparentemente faceva finta di parlare con accento inglese ed io ho pensato: ”ma chi è questo scemo che mi fa sto’ scherzo?!” …  messaggio che diceva di volerci parlare per una mostra rappresentativa dell’Irlanda a Venezia, e a maggior ragione ho pensato ad uno scherzo!

Poi però per scrupolo richiami ed effettivamente era l’ambasciata d’Irlanda. Per vari motivi, ma principalmente perché in passato un quadro era stato rubato, per quasi vent’anni la Repubblica era sparita dalla Biennale d’Arte.

Allora era il periodo del boom della Tigre Celtica e nel frattempo aveva preso piede l’orgoglio dell’autorappresentazione internazionale, quindi l’Irlanda ha voluto riprendere la sua partecipazione. Abbiamo usato quella che adesso è casa mia come Padiglione di rappresentanza alla Biennale nel 1995 ed è stato un vero successo. Tant’è che la Giuria della Biennale avendoci visitato ha poi dato a Kathy Prendergst il Premio 2000 al miglior giovane artista nella mostra ufficiale. Quindi è stato per noi un grande lancio, in un giorno ci siamo trovati addosso troupe televisive, giornalisti, visitatori…

Da lì sono venute altre collaborazioni, si sono aggregati altri stati. Dal caso abbiamo in seguito lavorato ancora assieme a questi artisti irlandesi, poi via via sono sorte altre opportunità che, per diversi motivi, hanno portato ad una carriera “mediorientale”: abbiamo lavorato più volte con l’Azerbaijan, con la Turchia, abbiamo fatto i primi padiglioni del Libano, il primo Padiglione dell’Iraq e poi altri due, il primo Padiglione della Palestina, una volta anche con la Bulgaria in occasione della Biennale Architettura.

​

A.R.: In quegli anni era un atteggiamento molto sperimentale, erano tutti Paesi in via di sviluppo dal punto di vista dell’esportazione dell’Arte contemporanea, è così ?

​

V.U.: Si, abbastanza, erano tutti Paesi fuori Biennale in spazi trovati, come una birreria in disuso alla Giudecca, un centro sociale, o piani di Palazzo nel caso dell’Azerbaijan, quando ha voluto fare più bella figura, e così via…

Questo è stato effettivamente peculiare per noi, del resto non sarebbe stato possibile in nessun’altra città italiana, un’occasione di cui sono grato!

Non è merito della Biennale perché non ci hanno cercato loro, ma è stato grazie alla Biennale che questo si è potuto realizzare.

E’ stato un motivo di crescita, di consapevolezza, di avanzamento nella qualità: abbiamo lavorato con artisti e curatori internazionali sempre nel ruolo di “manager”, non eravamo noi a scegliere gli artisti ma questo non è importante, abbiamo lavorato assieme a loro, ed anche se abbiamo ricevuto degli onorari come attività non profit per la nostra collaborazione, li abbiamo poi reinvestiti per realizzare i nostri progetti, interamente senza sponsor, come ad esempio quello più recente di Alberta Pellacani, una produzione propria con un piccolo catalogo, spese di allestimento e dell’artista, tutto a nostro carico anche se senza grossi budget.

​

A.R.: Tu dici sempre “noi” ma Nuova Icona è vittorio Urbani, perché parli al plurale?

​

V.U.: Si. È vero, io uso sempre il “plurale maiestatis”, questo perché credo nel lavoro collegiale di persone, giovani curatori come Elisa Gemma, con cui lavoriamo da tempo in maniera stabile, ed anche Nicole Boldrin; questa attività ha avuto come base un’Associazione che in momenti di gloria come i tardi anni ’80 e i primi ’90, ha avuto ben sessanta soci iscritti. Attualmente siamo circa cinque, però siamo tutte persone che realmente si interessano agli artisti, che pensano alla realizzazione dei progetti . C’è stato un momento, invece, che eravamo diventati una specie di Club, vale a dire che le persone era forse interessate a venire ai vernissages, a trovarsi ai party di inaugurazione, c’è stato un momento in cui non ero cosciente che eravamo diventati “chic” e che era di moda andare a Nuova Icona…

​

A.R.: Quindi non c’è una precisa linea nella direzione artistica?

​

V.U.: Pur figurando come Direttore Artistico, la scelta vuole essere spersonalizzata; tornando dal noi al me, non interessa presentare quello che “mi” piace, questo lo so già e forse presenterei solo Arte italiana del Manierismo!

Non mi interessa quel che a me interessa!...Crediamo – e torno al noi – di dover presentare progetti (cose) che hanno bisogno di un’occasione. Una cosa che trovo interessante negli artisti è che hanno il bisogno del “per chi” fare il proprio lavoro, avendo già il "perché", la motivazione. Noi offriamo questo, “noi” siamo il pubblico degli artisti, l’opportunità, un pubblico che può essere esiguo o di decine, centinaia di persone per i progetti di maggior successo, quelli che hanno una vita “post mortem” lunga ben oltre il periodo espositivo.

Ci sono mostre di cui mi chiedono i cataloghi dopo decine d’anni, o di artisti che sono cresciuti. Per esempio Mike Nelson, un’artista che ha presentato la Gran Bretagna alla Biennale pochi anni fa, aveva fatto una delle sue più importanti installazioni nella ex birreria alla Giudecca, uno spazio trovato da noi, quella volta abbiamo lavorato assieme agli sponsor dell’organizzazione inglese che proponeva l’installazione. Quello è stato una specie di lavoro ”criptico”, forse non visto da molti perché un po’ perso laggiù alla Giudecca, ma sicuramente un lavoro seminale importante per lui, grazie al quale i critici lo segnalano e lo riconoscono e in seguito va’ a finire in Biennale.

Così è successo a vari artisti che hanno lavorato con noi e poi li ho visti partecipare alla  Biennale o in grandi mostre internazionali.

A.R.: E’ dunque il vostro un lavoro di ideazione, di “creazione nella creatività” ?

V.U.: Certo, è proprio così. Ad esempio, l’artista irlandese Corban Walker è stato alla sua prima mostra credo in Europa, da noi a Nuova Icona, nella galleria che adesso è casa mia, e poi ha rappresentato l’Irlanda due Biennali fa’; o Graham Fagen, scelto per delle mostre in Turchia a Venezia e a Londra, curate da me, e poi ha rappresentato la Scozia la scorsa Biennale…senza continuare la lista, voglio dire che gli artisti possono crescere, bisogna crederci e dare loro un punto sul quale appoggiarsi.

Infatti, credo soprattutto in quanto ho già affermato, che il perché ce lo mettono loro e il “per chi”, un pubblico, un “ascoltatore non distratto”, glielo offriamo noi!

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