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Santolo De Luca - LA PAURA FA '90...ANCORA - 6° capitolo

Santolo De Luca - Foto di Iaia Gagliani

L’attesa presenza di Santolo De Luca su aARTic definisce uno sguardo sull’arte contemporanea, ed in particolare sulla pittura, vista attraverso i suoi occhi e le sue opere.

Il suo intervento si svilupperà attraverso più

capitoli, analizzando la

contemporaneità scandita dagli eventi che negli ultimi venticinque anni

hanno segnato la nostra storia e le nostre emozioni.

A partire dagli anni ’90, periodo in cui la corrente

“medialista” lo vede protagonista e maggior esponente, l’Artista ci disegna la sua opera attraverso gli accadimenti sociali,

politici e culturali che hanno segnato il suo percorso stilistico e concettuale.

Le parole per Santolo De Luca hanno un valore assoluto, sono parte essenziale dell’opera, sono definizione,

gioco, suggestione, divertita ironia; sono il cuore pulsante della figurazione, sono opera stessa.Ed è con grande attenzione che dobbiamo decifrare questa sua incisiva e pittorica dialettica. A.R.


Approfondire senza volermi ripetere su alcune riflessioni già fatte in qualche scritto precedente a quest’ultimo, ma anche considerando che ripensarci è già un ripetere, non posso quindi ripetermi che per approfondire. Allo stesso modo in cui un’idea ripensa a se stessa e ogni volta si scopre come un’idea altra, come in fondo faccio da tempo con le mie immagini. Era in questo senso inteso il mio progetto del 1996: “Coltivare l’Idea”, una serie di opere di diverse dimensioni, dove in ciascuna era rappresentato un insieme di foglie di marjuana, distribuito nello spazio in ogni sua singola foglia.

Ogni volta ripetuta all’infinito, fino alla stupefazione da coltivare con lo sguardo, per farla crescere a vista d’occhio. L’ idea rappresentata da quella foglia che in sé rappresenta una concezione che va oltre la pianta, ancora a qualcos’altro.

Quel concetto per cui la pianta si relaziona allo sguardo, ma si identifica nella relazione che ha con l’uomo. Dunque, allo stesso modo, in questo ripetermi cambio e ogni volta approfondisco. Così come si può approfondire a riguardo dei cambiamenti di certi aspetti dell’arte e del sistema dell’arte, identificati sotto forma di una genetica degli anni ’90, e che ad oggi, per il persistere di quel gene, oltre tutto, oserei dire, in modo definitivo. Penso con azzardo a quei cambiamenti relativi alla concezione di arte, e ripeto “concezione”, ma non concetto.

Perché la concezione di un qualcosa, è relativa ai dati, all’informazione, alla notizia, quella appresa attraverso l’attrazione a cui ci piegano i media, o quella virale dei social che, con la loro riconosciuta virulenza, contribuiscono a stabilire una concezione o più volgarmente un “opinione”. Allo stesso tempo, anche in ambito scientifico, accade che i media trasfigurino la scienza in “opinione”, o come in ambito religioso, dove nella cristianità la concezione non può che essere Maria.

L’Immacolata Concezione a cui dedicai nei primi anni del 2000 una grande opera dal titolo: “L’Immacolata Confezione”, perché rappresentava la bottiglina della madonna di Lourdes svuotata dall’acqua, trasudata sotto forma di gocce sulla superficie del quadro dipinto.Quella Concezione che, una volta appresa la notizia per antonomasia, genera il Cristianesimo che oggi sopravanza al concetto di DIO.

L'Immacolata confezione, 2003, 230x110, olio su cartolne intelaiato


Dunque, così come la concezione sta alla Madonna, il concetto sta a Dio. D’altra parte il concetto è in relazione ad una coscienza oltre che una conoscenza, ad una consapevolezza e oltretutto ad un’autoanalisi. Attraverso un salto mortale su se stesso, come nel tempo eterno e ripetuto, come quello delle stagioni di questo tempo, in cui ormai, ogni volta, la prossima può essere quella mortale. Quel salto mortale, nell’equilibrio dell’azzardo e di quella così detta onestà intellettuale, che ti permettono di superare l’astrazione del concetto, ma soprattutto autorizza l’autore anche a un potere critico, attraverso e verso la sua stessa estetica.

A 20anni di distanza, dalla fine degli anni ’90, e quindi dalla fine del secolo scorso, di un potere critico come quello espresso appunto in quegli anni, se ne sono perse le tracce. Nel senso che sono state calpestate e ripercorse con una tale e inavvertita frequenza fino al punto da trasformarle in tracciato, pertanto le tracce invisibili di quegli anni sono ormai un sentiero che ci conduce ad oggi. Nell’arte di oggi si può comprendere come sia venuto alla luce quel concetto di “Arte degli anni ’90”, ma soprattutto quanto quell’arte, a vent’anni di distanza, sia ancora presente a dimostrazione della sua tenuta, intesa come resistenza e dunque come durevolezza dei contenuti nei diversi linguaggi di quegli anni. Quella forza che il lungo e silenzioso abbrivio degli anni ’90, li ha portati a scontrarsi con i primi due vagoni del treno del 2000, intesi come decenni. Si afferma proprio nell’inconsistenza concettuale, ormai sostituita con una concezione così come si afferma l’opinione che si è sostituita ai contenuti. Questi primi vent’anni del 2000, questo ventennio, così come se venisse tamponato dagli anni ’90, fino ad entrargli tra le lamiere, dall’impatto di questo scontro ne esce accartocciato su se stesso, tra le lamiere estetiche del suo stesso involucro che, per la sua vuotezza di involucro appunto, non può resistere all’urto.

Questi primi vent’anni sono stati miseramente travolti, nonostante quell’allarme che ci coinvolge fin dal titolo di queste mie riflessioni, e mi riferisco a quella solitudine della paura che fa ’90, perché è anche l’ultimo dei numeri di questa tombola che col finire degli anni ’90 ha avuto il sopravvento sul coraggio dell’impertinenza, dell’azzardo che ha caratterizzato tutta l’arte del ‘900, e non solo l’arte.

Assistiamo in questo momento storico ad un’arte calcolata, così come nell’ambito delle scienze si afferma una concezione di ricerca scientifica calcolata, soprattutto in termini di riscontro economico, più che in termini di beneficio per l’umanità. Una ricerca che non prevede l’azzardo e che prescinde da quell’impertinenza, che è insita nella domanda, nell’interrogativo, nella curiosità intellettuale e anche nell’ambizione umana. Mi viene in mente il titolo della grande mostra di fine secolo, tenutasi al Museo d’Arte Contemporanea di Montreal nel ’99, e durata per quasi tutto il 2000, che appunto si intitolava “Oeuvre d’Impertinence” dove fui invitato da Paulette Gagnon, critico d’arte e curatore della mostra, che nella conferenza stampa di presentazione, citando gli artisti invitati, tra cui oltre il sottoscritto, Ilia ed Emilia Kabacow, Charles Ray, Robert Therrien, Kim Adams ma anche agli appena scomparsi Martin Kippemberger e Fèlix Gonzàles Torres, come i più rappresentativi di quegli anni, ci definiva profeticamente come “gli ultimi impertinenti”. Mostra in cui, tra l’altro, volendomi soffermare per qualche riflessione, presentai due grandi opere ad olio e tra queste: “L’Annunciazione”, del 1998, rappresentata con 420 microfoni sospesi nell’attesa di un annuncio, nel vuoto dello spazio dal cui fondo si accende un'unica grande stella luminosa a forma di croce.

L'Annunciazione, 1998, 170x170, olio su cartone intelaiato


Una mostra, dove oltretutto presi atto, con sorpresa, di essere l’unico pittore presente tra vari artisti di altri linguaggi, come d’altronde già da qualche anno accadeva in Italia, comunque concettualmente accomunati da un unico contenuto, per l’appunto quell’impertinenza e quell’azzardo di cui, adesso nel cosiddetto prodotto artistico, anche il più rappresentativo dell’imprenditoria dell’arte di questi primi vent’anni, non vi è traccia.

Penso al prodotto Banksy che nasce in strada e per la strada, per cui genericamente e retoricamente lo si definisce “street artist”, ma “in strada”, è anche il luogo dove si smentisce e si esaurisce concettualmente, qualora l’imprenditoria dell’arte lo offra come suo prodotto nella confezione delle sue vetrine mediatiche, tra cui il prepotente rito abbreviato di quel Media, in cui si sono trasformate ormai le Case d’Asta; attraverso il quale non si può stabilire altro che una concezione di arte, prescindendo inesorabilmente dal concetto, come al contrario invece, resta intatto nelle opere dei suoi antenati degli anni ottanta, che conservano il concetto comunicativo di strada a partire già dalla loro definizione di Graffitismo che, dalle pareti di una caverna comune, si evolve sui marmi urbani di un grattacielo o sulle lamiere della tecnologia di un treno della metropolitana di New York, oppure di una serranda del Bronks. Un linguaggio urbano che passa dalla scrittura al segno e, che nel suo urbanesimo, dalla strada alle pareti di una galleria di Soho o a quelle di una casa d’aste internazionale, conserva sempre quell’urbanità del concetto, anche nel suo presentarsi in modi poco urbani, come la rabbia critica dell’emarginazione in J.M.Basquiat o la drammatica solitudine del marciapiede in Keith Haring, al quale negli anni ’80, quando durante un suo soggiorno a Napoli frequentava una discoteca in cui lavoravo come guest D.J, (avevo appena finito gli studi e cercavo di mantenermi con un lavoro che in quegli anni era tutto da inventare), mi fu presentato dalla persona che lo accompagnava (che era anche un mio amico) e ci invitò al suo studio, che poi era la stessa galleria Amelio, dove qualche mese dopo avrebbe fatto la mostra. Così ebbi modo di chiedergli come mai lavorasse sui teloni dei camion e lui mi spiegò che in galleria, non potendo portare un supporto come un muro o una serranda o il vetro di una vetrina, doveva pur portare un qualcosa dalla strada. Oggi, a più di trent’anni di distanza, “quel qualcosa”, quei suoi cuori nella loro traccia segnica trasudante di spray rosso, significano ancora la parola amore. Tutt’altro è quanto accade adesso, non solo nell’arte, ma anche nella scrittura, per esempio attraverso lo smartphone o i cosidetti social, appunto, la parola amore si trasforma ormai in un intercalare come: Amo’. Concezione linguistica, tra l’altro molto diffusa anche nella lingua napoletana, ma forse perché nella lingua stessa, dove non esiste il “ ti amo”, ci si sente come autorizzati ad abbreviare il concetto che la parola amore esprime, facendolo apparire più fugace appunto come un intercalare, rispetto a quello più certo, e con un più ampio concetto di amore, che si esprime univocamente in lingua napoletana, con “ Te voglio bene assai”. Per cui, in proposito, per restare in argomento, non basta mettere dei fiori d’amore al posto di una molotov nella mano di un guerrigliero, come fa retoricamente Banksy, che superficialmente sostituisce un’arma “povera” ed elude una critica all’industria e al mercato delle armi, tantomeno porta dalla strada alla galleria o sulla parete di un asta, quell’indizio che contiene il concetto di strada, come era il telone da camion per K.Haring, e pertanto non è altro che la concezione abbreviata e sostituita al concetto di arte, come accade per la parola Amore con “Amò” nella scrittura. La scorciatoia da un concetto, tra l’altro già espresso dalla coscienza della seconda metà del Novecento, ma in un linguaggio estetico molto più ampio, fino ad instaurare una cultura del disarmo e dell’ecosostenibile, affermandosi, in modo più rilevante, nel pensiero umano e nell’arte, nella musica, nella scrittura; nel grido delle parole oggi morte in chissà quale vinile: ”Mettete dei fiori nei vostri cannoni”.


Santolo De Luca, giugno 2021


archiviosantolodeluca@gmail.com


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