Santolo De Luca - Foto di Iaia Gagliani
L’attesa presenza di Santolo De Luca su aARTic definisce uno sguardo sull’arte contemporanea, ed in particolare sulla pittura, vista attraverso i suoi occhi e le sue opere.
Il suo intervento si svilupperà attraverso più
capitoli, analizzando la
contemporaneità scandita dagli eventi che negli ultimi venticinque anni hanno segnato
la nostra storia e le nostre emozioni.
A partire dagli anni ’90, periodo in cui la corrente
“medialista” lo vede protagonista e maggior esponente, l’Artista ci disegna la sua opera attraverso gli accadimenti sociali, politici e culturali che hanno segnato il suo percorso stilistico e concettuale. Le parole per Santolo De Luca hanno un valore assoluto, sono parte essenziale dell’opera, sono definizione, gioco, suggestione, divertita ironia; sono il cuore pulsante della figurazione, sono opera stessa. Ed è con grande attenzione che dobbiamo decifrare questa sua incisiva e pittorica dialettica. A.R.
...Tempo fa ho letto da qualche parte che La Biennale non è più una mostra, ma è un genere. Il genere Biennale, là dove la mostra, l’esposizione, l’esibizione, lo spettacolo , non è più l’insieme di opere, di idee, di linguaggi, ma un rapporto sociale tra persone e il mercato, mediato da opere e immagini che non sono altro che il “red carpet” srotolato dal mediatore del caso che si presenta nella figura del curatore. Per il quale è fondamentale esclusivamente, quante persone hanno calpestato il tappeto rosso, anziché quante di queste persone, aspiranti all’“opera culturale”, anche solo per un attimo, siano riuscite ad abbassare lo sguardo a quel tappeto, se non altro, almeno per vedere su cosa si stessero reggendo in piedi: la Cultura, che si sa, è un’identità che unisce e che innalza, ma che scivola ormai inesorabilmente, è il caso di dire, sotto i piedi del “culturale”, inteso come sfilata trionfante della quantità sulla qualità. Il culturale disperde come molecole, sparpaglia le carte, degrada l’aspirazione, squalifica l’unicità e ci fa ripiombare nei numeri, col peso del quantitativo e del calcolo che, anche quando quest’ultimo, a conti fatti, presenta il segno più, innegabilmente sancisce la disfatta e appunto il fallimento della cultura a vantaggio del culturale. E’ culturale ormai da parte di un curatore di una biennale, offrire al maggior offerente gli spazi lasciati vuoti nel padiglione di uno Stato che per problemi politici, sociali, economici, ambientali, talvolta di guerra, è impossibilitato ad esprimere la propria cultura attraverso l’arte, il linguaggio, l’idea e la presenza di un proprio artista rappresentante, ammesso che in un tale contesto ce ne fosse uno libero di fare arte. Senza tener conto che quei padiglioni vuoti, sarebbero invece più potenti nella loro “vuotezza” e sarebbero più presenti nella loro assenza, darebbero più volume alla voce di quel paese e al suo silenzioso grido d’aiuto, di denuncia, di attenzione rivolto alla coscienza, almeno quella “culturale” appunto, di questa sorta di reality in cui i partecipanti, prima ancora di essere nominati, conoscono bene, più degli utenti, le tariffe del televoto. Dagli anni Novanta, ormai dalla fine dell’ultimo decennio del secolo scorso, lo slittamento non è più quello dall’essere all’avere, ma dall’avere all’apparire. Non più quello dall’essere artista, all’avere “i mezzi” siano essi: un mercante, un partito, un’azienda, ma dall’avere tutto questo, all’apparire artista, a qualunque costo. E, se non a quello di comprare il posto, almeno a costo di affittarlo. Qualche anno fa mi capitò … di pensare che l’avrei fatto anch’io, ma a condizione che la cifra del costo sarebbe andata in beneficenza, per le necessità del popolo del paese che mi avrebbe “ospitato”... . Questa che sarebbe concettualmente già un’opera, sarebbe molto più realisticamente, quantomeno, un’opera di beneficenza e sarebbe senz’altro più un onore presentarsi almeno per una causa, piuttosto che pervenire semplicemente per apparire “artista”, tra l’altro nella triste consapevolezza che un “posto omaggio” sarebbe invece di un valore che non ha prezzo. Dunque, si ripresenterebbe la condizione del vivere quell’inesorabile slittamento al quale assistiamo ormai dall’inizio di questo secolo e più precisamente dalla fine degli anni ‘90. Lo slittamento dal valore al prezzo. Dal quanto vale al quanto costa… ma costa perché vale o vale perché costa?… Quello scivolamento culturale che sul finire degli anni ‘90 si manifestò come logica operativa creata “ad arte” dall’imprenditoria del genere artistico e che allo stesso tempo veniva definita in gergo, presumo contagiato da quello borsistico, come: “l’operazione”. Quel meccanismo di cui, anche se in modo più subdolo e molto meno diffuso, già negli anni ‘80 per la verità, avemmo modo di assistere al successo della sua sperimentazione, grazie al quale ormai l’opera d’arte non costa più quanto vale ma vale quanto costa anche in termini di catalogazione, diffusione d’immagine, logistica, comunicazione mediatica e storicizzazione compresa. Ma che oggi, con l’avvento dei social, la diffusione virale, la replica massificata, prima che possa essere smentito dalla loro totale gratuità, il prezzo viene stabilito in un ambito più riservato, speculando sulla credibilità più esclusivamente atta a certificare, da una casa d’aste possibilmente accreditata in ambito internazionale. Attraverso appunto la così detta “operazione” che altro non è… che una ricapitalizzazione del proprio avere in termini di opere d’arte, soprattutto quando queste sono più di una relative alla produzione di uno stesso artista, magari con dubbie prospettive storiche e dunque con una valutazione low cost.
Santolo De Luca, L'acqua di Fontana, 2001
Un meccanismo attraverso il quale ponendo in asta un’”opera d’arte” di proprietà, chiaramente si crea da parte del proprietario “l’occasione”, il riservato presupposto di poterla a sua volta anche ricomprare, aggiudicandosela magari a un prezzo anche decuplicato. Nella consapevolezza che in questo caso, l’opera, non solo ritorna alla proprietà più avvalorata nel prezzo certificato dalla casa d’aste, aggiudicato come miglior offerta, ammesso che ce ne siano state altre. Ma soprattutto nella certezza che del prezzo di aggiudicazione, in realtà solo una parte, in quanto spetta alla casa d’asta per i suoi diritti, è il costo reale dell’”opera-zione”. Perché il restante chiaramente rientra al proprietario stesso, pacificamente legittimato ad affermare che quell’opera costa quanto certificato dall’asta, ma soprattutto che, da quel momento, il costo di ogni altra singola opera di tutta l’intera produzione dell’artista, con le dovute proporzioni, verrà adeguata al prezzo di quella aggiudicata. Una conseguenza di cui potranno beneficiare tutti gli altri possessori di opere dell’artista che, in un modo o in un altro, a loro volta, sono coinvolti nell’operazione. Alcuni, sostenendo quel prezzo sul mercato, adeguandolo alle opere in loro possesso, qualcun altro contribuendo alla copertura del costo reale dell’operazione …. Si sente dire sempre più spesso : “ci vogliono i numeri”… allora diciamo che il costo reale è il venticinque per cento del costo certificato, appunto quel venticinque per cento versati in diritti d’asta e che infatti diventa ancora meno se si è in due e ancora meno se si è in tre…. Ecco che “ci vogliono i numeri”, perché logicamente più si è, più si abbassa il costo reale dell’opera-zione ….Però ci vogliono “numeri” anche per studiare, inventare, calcolare come pagare dieci per avere mille, per essere più precisi per poter dire di avere mille, tra l’altro tutti certificati: Geniale.
Dagli anni Novanta, “l’operazione” è il vero colpo di genio dell’imprenditoria del genere artistico. Ed è incomprensibile, il perché di questa metodologia di’intervento sul mercato, ormai nella disponibilità anche dell’artista stesso, la coscienza critica non ne prende atto. Forse perché la critica non si occupa di mercato e dunque, cosa c’entra col mercato dell’arte? O forse perché la critica essendo stata emarginata ormai in ambiti impiegatizi dalla stessa imprenditoria, è stata defraudata dei propri strumenti intellettuali di ricerca, di lettura dell’opera e dell’evoluzione del pensiero dell’arte a vantaggio di una curatela che è più attenta a una probabile estetica dell’economia e dunque all’evoluzione del pensiero del mercato che ormai dall’inizio di questo secolo, in piena glaciazione di qualunque poetica e di qualsiasi etica, continua a evolversi su se stesso esclusivamente nei numeri, come in una sorta di calendario perpetuo. Pertanto, da allora, la storia dell’arte si sta determinando ormai come la storia dell’arte del mercato. E probabilmente, nei prossimi anni, da quella, per esempio, definita nel secolo scorso come la “critica fatta ad arte” da Achille Bonito Oliva, ci ritroveremo a leggere del “mercato fatto ad arte”.
Dicembre 2019 ... continua…
Santolo De Luca, Latte tergiversato, 2000
Santolo De Luca
dicembre 2019
archiviosantolodeluca@gmail.com a cura di Alice Rubbini
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