Abbiamo tutti presente quelle storie di complotti e cospirazioni su come grandi macchine e istituzioni pubbliche o culturali siano segretamente influenzate da pochi eletti, personaggi che lavorano nell’ ombra, all’ apparenza insospettabili, che nessuno sembra conoscere davvero. Nessun alieno o rettiliano vestito di diplomazia in questo caso, ma uno dei produttori musicali più presenti dei nostri tempi, che per sua stessa ammissione lavora senza avere alcuna capacità tecnica ma che ha collaborato in modo estensivo con molti degli artisti che ci possono venire in mente.
Rick Rubin, all’anagrafe Frederick Jay Rubin, nasce a Long Island, New York, nel 1963, da una famiglia di origini ebraico-polacche. Il produttore appena ventenne si appassiona al rock e derivati frequentando spesso i concerti del gruppo punk americano per eccellenza, i Ramones; presta però grande attenzione anche al neo-fenomeno dell’hip-hop nascente nei primi anni Ottanta, e assieme al produttore e imprenditore americano Russell Simmons, fonda - nella stanza di dormitorio di Rubin alla New York University - la Def Jam Records nel 1983, una casa discografica attiva fino al 2014 pilastro della produzione e commercializzazione del rap nei suoi primi decenni di vita. Forte del suo interesse per il rock e delle possibilità che un genere nuovo come l’hip-hop proponeva, produce la prima hit rap con LL Cool J, facendosi notare dal mondo con quella che era solo una nicchia musicale, raggiungendo le trecentomila vendite. Dato il successo riscontrato, riesce a entrare a far parte con la sua etichetta della ben più grande Columbia Records, con cui prende sotto la sua ala i Beastie Boys, Public Enemy e Run DMC - in quest’ultima era membro anche il fratello di Russell Simmons, Joseph - ; band che, assieme a Rubin, hanno creato il rap rock ibridando i due generi e diventandone pionieri e precursori - esempio per eccellenza del rap rock è il brano Walk This Way degli Aerosmith del 1975, riproposto proprio con la partecipazione dei Run DMC nel 1986 assieme a Rick Rubin - , prima di esempi come i Limp Bizkit, System of a Down e Linkin Park, tutti gruppi con cui Rubin ha avuto a che fare e produrrà una moltitudine di dischi.
Il rapporto con la Def Jam e la Columbia inizia a incrinarsi attorno al 1986, quando Rick Rubin decide di produrre la band trash metal Slayer per la produzione del loro album Reign in Blood. Gli Slayer erano al centro di controversie legate ai loro testi violenti con temi che vanno dagli omicidi, al satanismo e nazismo, ma Rubin, sostenendo la libertà dell’arte, dichiara in un’intervista dell’epoca al Los Angeles Times: “chi ha detto che il rock ’n’ roll deve essere bello? Il rock ’n’ roll dovrebbe andare contro le regole”. Rubin non riesce a convincere la sua stessa casa discografica e pubblica l’album assieme alla rivale Geffen, terminando definitivamente i rapporti. Rubin, ufficialmente divorziato dalla Columbia Records, si sposterà sull’altra costa degli Stati Uniti, a Los Angeles, dove fonda la American Recordings nel 1988 proprio in collaborazione con la Geffen. “La mia visione è sempre stata quella di ricominciare”, dichiarò Rick ai tempi, stanco anche del rap che stava iniziando a diventare mainstream e un po’ come se volesse ripartire dalle sue origini, indirizzò il focus iniziale della sua seconda casa discografica sulle band rock e metal, firmando i precedentemente citati Slayer, il gruppo metal Danzig, il gruppo hardcore rap Geto Boys e persino il fortemente controverso comico Andrew Dice Clay. Tutti questi nomi erano perfetti per Rubin e la sua voglia di rimanere indipendente e a favore dell’arte libera: a seguito infatti dei testi crudi dei Geto Boys e dei commenti su donne e omosessuali di Andrew Dice Clay, Rick è rimasto saldo al fianco dei suoi artisti e della creatività e sempre al Los Angeles Times dichiara: “devi pubblicare dischi in cui non credi politicamente tanto quanto fai con quelli in cui credi, perché è libertà di espressione. Quando inizi ad aver paura dell’arte che riflette la società, allora c'è qualcosa di sbagliato nel mondo, non nella musica”.
Siamo ormai alle porte degli anni Novanta, e Rick Rubin prende parte a due delle collaborazioni più impattanti e longeve della sua carriera: nel 1991 produce Blood Sugar Sex Magik, uno degli album rock più di successo dei Red Hot Chili Peppers in cui Rubin vorrà a tutti i costi inserire Under The Bridge, pezzo inizialmente scardato dalla band che si rivelerà un successo mondiale. Da quel momento in poi firmerà tutti gli album della band califoriniana fino al loro - finora - ultimo disco del 2022. Tra il 1993 e il 1994, Rubin decide anche di prendersi in carico il personaggio e la carriera di Johnny Cash, leggenda della musica country statunitense la cui fama, a partire dagli anni Ottanta, si sta assopendo a vista d’occhio, nonostante venga inserito nello stesso periodo nella Country Music Hall of Fame. Tra tentativi di ridare vita al suo successo e problemi di salute, Johnny Cash entra a far parte della casa discografica di Rick Rubin, pubblicando nel 1994 l’album American Recordings, raggiungendo un grande successo; da quel momento in poi, tra i due inizia un sodalizio artistico florido e ricco di soddisfazioni, vincendo cinque Grammy Awards. Non solo collaboratori, ma anche amici, in quanto Rick Rubin si occupò della cura e pubblicazione anche di album post mortem del cantante dopo la sua scomparsa nel 2003.
Negli anni 2000 Rubin abbandona la American Recordings per diventare co-capo della Columbia Records, ma non ha intenzione di fermarsi, anzi. In un periodo che arriva fino ai giorni nostri espande il panorama di artisti per cui produce, buttandosi nel pop e nel precedentemente abbandonato rap; tra i primi ci saranno Jay-Z e Beyoncé, mentre nel 2012 vince il Grammy per il miglior album dell’anno con 21, il disco di Adele. Tra le collaborazioni nel pop contiamo anche Lady Gaga ed Ed Sheeran e per quanto riguarda il rap diventa tra i collaboratori preferiti di Eminem, con cui crea The Marshall Mathers LP 2 nel 2013, stesso anno in cui partecipa a Yeezus di Kanye West. Rick Rubin non è estraneo neanche all’Italia, in quanto è dal 2017 che collabora con Jovanotti per la produzione di Oh, vita! fino al più recente Mediterraneo del 2022. Innamoratosi dei paesaggi toscani, ha acquistato qualche anno fa una tenuta in provincia di Siena, in cui l’anno scorso ha organizzato un festival musicale ricco di artisti internazionali, tra cui l’amico James Blake.
Il perché, come e con chi collaborare per Rick Rubin sembra non essere dettato da nessuna legge di mercato, nessuna statistica o opportunità commerciale. L’eterogeneità dei progetti a cui partecipa fa trasparire un’etica del lavoro guidata dall’emozione per la musica e per l’arte nel suo senso più naïf. Quando gli viene chiesto come sceglie gli artisti, lui risponde che “Mi innamoro e basta, è solo magia, è una connessione emotiva. Di solito è una combinazione tra ascolto del lavoro dell’artista e conoscenza, per vedere realmente chi sono”. Rubin spera sempre che i suoi progetti possano piacere a qualcuno, certo, ma non si lascia influenzare dalle stime di vendite e rimane sempre fiero di ciò che ha fatto, rispettandosi e rimanendo artisticamente integro nel lavoro.
Di certo il successo e la fama di Rubin sono figli del suo talento, ma ad essere d’effetto del suo personaggio sono il suo stile di vita, le sue abitudini e il modo in cui crea. In un mondo di produttori con strumenti iper tecnologici, studi, abilità e immagini pubbliche costruiti su misura, Rick Rubin sembra una mosca bianca.
Barba e capigliatura lunga e non curata, spesso scalzo e con addosso solamente magliette e pantaloni corti in tinta unita, Rubin appare come un misto tra un santone religioso e un minimalista, ritirato nella sua casa studio “Shangri-La” a Malibu, oppure visto spesso in mezzo alla natura - non stupisce dunque la sua affinità creativa con Jovanotti. Rubin pratica meditazione da quando ha quattordici anni, e la filosofia zen che decreta sia il suo aspetto e le sue abitudini che il suo metodo del lavoro, fatto di cose semplici ed essenziali, lo stretto necessario a dare struttura alle emozioni, allo scorrere libero di flussi creativi da intercettare sperduti nell’universo. In una recente intervista per la CBS, Rubin invita il giornalista a chiudere gli occhi e rimanere in silenzio per qualche attimo prima di parlare, per poi rivelare che la meditazione lo aiuta creativamente a “pulire le distrazioni. Le distrazioni potrebbero mettersi in mezzo alla connessione diretta con le forze creative”. Le domande del giornalista si fanno più pragmatiche sulle conoscenze e capacità musicali, a cui Rubin in tutta calma e onestà risponde di saper suonare a malapena qualche strumento, di non avere nessuna capacità tecnica ma soprattutto di non sapere nulla della musica. Tutto il suo lavoro deriva dal suo gusto, sulla sicurezza che ha su ciò che gli piace e ciò che non gradisce, e crede che gli artisti vogliano collaborare con lui per la sua capacità di esprimere ciò che sente. Ci racconta che in studio si sdraia a terra con gli occhi chiusI, e cerca di intercettare quali emozioni sono presenti nella musica e su quali invece bisogna lavorare, ignorando qualsiasi altro tipo di stimolo. La - volontaria - scarsità di competenze tecniche ha portato Rubin a definire sé stesso come un “riduttore”, più che un produttore, metodo confermato anche da Kanye West che per la produzione del suo album Yeezus, chiese a Rubin di ascoltare le canzoni e di togliere tutto ciò che non servisse. L’approccio di Rick Rubin al lavoro è minimalista, essenziale, pochi suoni che abbiano davvero qualcosa da dire, lasciando spazio per espandersi e comunicare a ciò che è rimasto, così come esprimono i suoi vestiti anonimi e il suo studio semivuoto. Il minimalismo lo porta a eliminare il superfluo, permettendogli di trovare subito ciò che cerca o quantomeno di non rendere pieno di ostacoli il processo creativo. Uno stato di concentrazione massima su ciò che stiamo facendo oltre le flotte di dati e stimoli che qualsiasi media al giorno d’oggi ci propone incessantemente. Rubin ha deciso di condividere la sua visione della creatività in L’atto creativo: un modo di essere. Con la premessa di non voler dare nessuna sentenza o regola da manuale, il libro del produttore è una raccolta di ragionamenti sulla sua visione della creatività, indicazioni su cosa allontanare e su cosa invece allenare per diventare un creativo migliore, più in sintonia con le emozioni ricevute e che si vogliono trasmettere. Teorie quasi filosofiche su come ognuno di noi sia un creativo a modo suo in quanto intrinseco nella coscienza umana, e di come tutti possiamo beneficiare di un po’ di ordine, di gentilezza e pazienza verso noi stessi mentre e dopo aver creato qualcosa.
Tutte le caratteristiche di Rubin lo rendono inevitabilmente una figura polarizzante per gli addetti ai lavori e per il pubblico; in un settore altamente competitivo come la musica, il suo modo di lavorare potrebbe farlo apparire per alcuni come un pazzo ciarlatano, un venditore del nulla, mentre per altri il suo modus operandi è di grande valore e unicità, l’unico che può darti il risultato che cerchi e insegnarti come farlo di nuovo, come cercarlo dentro di te. La forza di Rick sta proprio in un legame profondo con la creatività più naturale, spontanea ed emotiva possibile. La mancanza di competenze tecniche lo rendono un mentore per gli artisti non in modo “accademico” ma spirituale e filosofico. Rubin ha deciso di condividere la sua visione della creatività in L’atto creativo: un modo di essere. Un libro in cui il produttore fa ragionamenti e scrive piccole sentenze sulla sua visione della creatività, da cosa allontanarsi e su cosa invece allenarsi per diventare un creativo migliore, più in sintonia con le emozioni ricevute e che si vogliono trasmettere.
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