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PARK LIFE ALL’ INTERPORTO DI BOLOGNA: URBAN ART FATTA BENE E PER DEL BENE

  • Immagine del redattore: Samuele De Marchi
    Samuele De Marchi
  • 22 ott
  • Tempo di lettura: 8 min

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di Samuele De Marchi

 

Sembra ci sia qualcosa di mistico, scritto tra le righe, noto a tutti ma difficile da spiegare, che collega lo spostamento logistico senza precedenti delle merci e lo stato dell’arte negli anni Sessanta; più prodotti ci sono più le persone sentono il bisogno di far sentire le proprie voci, sembrano voler gridare “ci siamo anche noi” sepolti sotto gli affari, i pacchi, il commercio e il mercato. Tra container, viaggi, esportazioni ed importazioni dei prodotti industriali nasce un nuovo tipo di arte negli Stati Uniti, una sorellanza tra discipline coese e dipendenti l’una dall’altra, l’Hip Hop. Tra le quattro gemelle diverse quella che ci interessa ora è il writing, il primo embrione dell’arte urbana; principalmente nei quartieri del Bronx e di Harlem a New York, i ragazzi si divertono a lasciare la propria firma - letteralmente - con le bombolette solitamente accompagnandola con un numero che indica il quartiere e un “puppet”, piccolo personaggio o icona stilizzata su principalmente due supporti, i muri degli interminabili palazzi della città e i vagoni delle metro che ci strisciano attorno come serpenti, dando un risultato finale diverso: se i primi delineano zone, confini, o diventano punti di riferimento o interesse, i secondi con il loro spostamento fungono da vera e propria pubblicità per l’artista. Il writing si evolverà poi nel lettering, una “firma” più elaborata e colorata, ma per la prima svolta si dovrà arrivare agli anni Novanta e spostarsi nelle grandi capitali europee come Parigi, Londra e Berlino. Qui l’arte urbana non sarà più fatta di scritte ma di disegni, immagini e figure per mandare messaggi sociali collettivi civili e politici con un linguaggio, quello delle illustrazioni, da sempre intrinseco all’uomo sin dalle sue origini, dando davvero voce alle persone e alla città, facendo parlare le sue mura. Attorno agli anni Dieci del Duemila, l’arte urbana inizierà a non essere più etichettata come vandalismo para-anarchico ma sarà riconosciuta dalle istituzioni, quindi legalizzata e commissionata dalle stesse città; è la nascita del neomuralismo. 

 


Città e persone, persone e città, “dove” e “chi”, “chi” e “dove”, gli spazi e chi li vive. Sono questi i protagonisti e i loro rapporti reciproci su cui si basa l’arte urbana, gli stessi su cui Prologis, azienda statunitense che si occupa di costruire e gestire parchi logistici avvia nel 2022 il progetto Parklife, forti dell’ interesse al benessere dei lavoratori e della grande crescita della logistica dopo l’avvento importantissimo dell’e-commerce, che ha reso questi luoghi e chi li frequenta un tassello ancora più importante della nostra società ed economia: l’iniziativa di sviluppo culturale e sociale ha l’obiettivo di rendere queste piccole città accoglienti e stimolanti per chi lavora al proprio interno ma anche interessanti per gli ospiti esterni, trasformando queste aree da mero polo commerciale a zona di socializzazione costruendo infrastrutture e servizi che possano portare esperienze anche extra-lavorative; aree relax e ristoro, campi da gioco, percorsi pedonali, zone verdi e servizi di trasporto interni sono alcuni degli elementi pensati per ridare spazio alle persone, e alle persone uno spazio.

E in che modo tutto ciò si lega con la street art? L’azienda ha pensato per il nostro Bel Paese di affidare a degli artisti urbani il compito di decorare muri di magazzini ed edifici con grandi opere che collegassero il tema della logistica alle persone, tenendo dunque sempre a mente a chi sono destinate tutte le merci che passano per di lì. Non solo murales, ma anche decorazioni e opere realizzate su decine di containers in disuso, lo strumento principale di stoccaggio dei prodotti nei loro viaggi in giro per il mondo, come per chiudere un cerchio e ridare alle persone tutto ciò che, in un modo o in un altro, gli appartiene. Sotto la cura e direzione artistica di Hemo - alias di Enrico Sironi -, street artist che ha chiamato a raccolta altri colleghi, l’interporto di Bologna si è colorato di un totale di 21 opere tra murales e installazioni di container decorati, visitabili gratuitamente da tutti grazie anche a qr code presenti su questi ultimi che forniscono dettagli sulle opere e una mappa per orientarsi nel parco.

Ho visitato lo spazio dell’interporto di Bologna - attraverso il quale ci siamo mossi in auto per coprire le grandi distanze - durante una visita guidata da Clara, giornalista e storica dell’arte esperta di street art, che ci ha trasmesso davvero il legame umano e popolare - nel senso di “per le persone” - su cui questa arte si basa e su cui si fonda tutto il progetto. Il tour è costituito da quattro tappe per vedere i principali murales del parco, con altre soste per godersi invece le opere realizzate sui containers. 

 


La prima tappa ci ha mostrato un’opera mastodontica, sia termini di dimensioni che di impegno e talento, un biglietto da visita per il parco decisamente d’effetto: “Panorama vibrante” di JOYS, artista padovano classe 1974, è l’opera di urban art più grande d’Italia con ben 1990 metri quadrati di grandezza, attualmente a censimento per verificare se non sia addirittura la più estesa d’Europa, come ci spiega Clara durante la visita. Realizzato dall’artista e da un suo collaboratore in circa tre settimane sulla parete di un edificio, il gigante riprende con una serie di gradienti di blu il colore del cielo, con il quale in determinate condizioni atmosferiche si fonde alla perfezione con armonia. Con uno stile geometrico quasi futurista, le tonalità di blu sono attraversate da linee squadrate, labirintiche, al cui interno JOYS come prevede il writing nasconde il suo nome, sfidando lo spettatore a trovarlo. Oltre alle dimensioni, ciò che mi ha sbalordito più di qualsiasi altra cosa è che l’artista, forte della sua esperienza internazionale, ha realizzato l’opera utilizzando pochissimi strumenti: nessuna griglia, proiezione o traccia preventiva, solo chiarezza verso l’obiettivo e consapevolezza artistica verso sé stesso. 

A pochissimi passi dal colosso di JOYS, Clara ci ha invece introdotto al primo container decorato della visita, “Working Class” di Luca Font: originariamente un writer e oggi tatuatore, ha più di vent’anni di esperienza nell’arte urbana, con uno stile essenziale fatto di linee pulite e campiture di colore omogenee, un linguaggio quasi vicino al graphic design. Per la sua opera Luca paragona metaforicamente gli uccelli alla logistica - entrambi viaggiatori -,  che, come i primi portano il cibo ai propri piccoli, la seconda porta merci e lavoro nelle vite di tutti noi. 

 Si risale in auto per vedere il secondo murales della visita, “Bologna 01” di Moneyless. L’artista lombardo crea un’opera di più di ottocento metri quadrati, con grandi campiture di colore che ospitano come protagoniste una serie di cerchi intrecciati tra loro che vanno a disegnare forme geometriche libere, astratte. I cerchi, tra i simboli dell’artista, sono realizzati in modo “tradizionale” e “imperfetto” con colature di colore volute, che però restituiscono nel loro insieme un senso di perfezione geometrica essenziale, astratto, altamente interpretabile e soggettivo, vicino dunque agli stilemi più classici e mussali dell’arte contemporanea. E non è un caso che l’opera con il grado maggiore di interpretabilità sia l’unica creata su un edificio dove all’interno non ci sono merci, ma persone: i muri degli uffici quindi sono testimoni del cambiamento e delle differenze umane di chi ci sta all’interno dandogli rilievo e voce, proprio come tutto il progetto prevede.

 La terza grande opera è invece di ZED1, artista toscano dalla poetica e stile dolce, quasi infantile, da favola - non a caso molti degli artisti che hanno partecipato sono anche illustratori per bambini. In “Bella bugia o brutta verità” quella che sembra essere una marionetta femminile - senso rafforzato dalla tecnica del rullo per ombreggiare, fa sembrare la pelle quasi di pezza - poggia le mani su due piante, una vivida e fin troppo perfetta con chiari segni di finzione come etichette e loghi, e un’altra con il vaso rotto, appassita, spenta. In alto a destra l’artista riscrive poi il titolo su uno striscione, aiutandoci - o costringendoci - a riflettere su questo bivio esistenziale molto umano e poetico, magari anche con un sottotono provocatorio legato al parco logistico e alle merci e alla loro natura “capitalistica”.

La quarta ed ultima tappa ci ha permesso di vedere un’opera che non analizza solo la connessione tra logistica-merce-persone, ma anche e soprattutto i rapporti tra popoli e culture attraverso il commercio stesso. “Carosel Cool Tour” di ETNIK utilizza forme geometriche intricate tra loro, su cui l’artista disegna espedienti retorici che simboleggiano le varie culture: da decori arabi-mediterranei a mandala indiani, passando per monumenti ed edifici veri e propri come la Basilica di San Luca, statue di Buddha, templi shintoisti e edifici moreschi. La loro posizione e orientamento sui blocchi geometrici sopracitati da un risultato che ricorda quasi la Relatività di Escher. Anche ETNIK è in realtà un writer, quindi tra la composizione nasconde in modo virtuoso il suo nome come la disciplina comanda.

Poco distante da questo ultimo murales si trova il parco in cui sono esposte la maggior parte delle opere realizzate sui containers: tra quelle toccate dalla guida ricordiamo quella di Ale Senso, italiana, che paragona il container alle antiche anfore greche, a tutti gli effetti antenate dei primi in quanto usate per trasportare merci nei lunghi viaggi via mare. L’artista usa quindi decorazioni vascolari dell’epoca e restituisce addirittura la texture ruvida della terracotta trattando la superficie del container con la carta vetrata. A fianco invece l’opera di Mr. Thoms, che da voce alla forza della natura sfruttando il suo puppet, fondendo perfettamente il container al parco in cui è inserito dando però un risultato cartoonesco e vivace. L’artista ha utilizzato solamente la bomboletta, ciò rende la superficie dell’opera molto liscia e sottolinea il talento. 

L’ultimo container visto durante la visita è quello di Nemo’s, artista solito usare come soggetti figure umanoidi rugose, nude, glabre, dalle espressioni spesso sofferenti. Nella sua opera, proprio una di queste sembra uscire dalla lamiera del container piegandola e strappandola come se stesse cercando di evadere o prendere una boccata d’aria. Nemo’s, colpendoci e inquietandoci, cerca di farci riflettere e prendere coscienza su un effetto collaterale della logistica, il traffico di umani nascosti dentro i container, ed è molto onesto  e rispettabile che Prologis non abbia voluto censurare questa visione drammatica.

Sarò sincero, l’arte urbana non è mai stata una disciplina a me affine; la ribellione, la rivolta, il malessere sociale da cui nasce e in cui cresce, non l’ho mai sentito parte di me come esperienza di vita e carattere. Non per questo l’ho mai reputata inferiore all’arte più museale e concettuale sia chiaro, e sicuramente tutto ciò è causa di una mancata consapevolezza e coscienza della società da parte mia, ma dietro a grandi murales coloratissimi in città non ci vedevo più che decorazione, al massimo una critica che non smuoveva in me neanche un granello di emozione. Autoanalisi psicologica a parte, le opere di Parklife, tra significato e decorazione, mi hanno fatto capire che l’arte urbana è arte contemporanea a tutti gli effetti, servendo gli stessi scopi semplicemente con una voce diversa ma uguale allo stesso tempo.  Personalmente attribuisco questo anche alla bravura e chiarezza di Clara, la nostra guida per il pomeriggio senza la quale probabilmente non sarei riuscito a interpretare e riconoscere nessuno degli elementi inseriti dagli artisti nelle opere, quindi anche la scelta del personale per guidare gli spettatori è stata una scelta vincente. Trovo che uno dei valori maggiori di questa iniziativa sia la sua accessibilità: al di fuori delle visite guidate - sempre gratuite - il progetto è interamente visitabile a costo zero ad ogni ora del giorno, così come le informazioni riguardanti le opere e gli artisti, reperibili inquadrando semplicemente un qr code. Non serve addentrarsi in cricche di writer che scappano sui binari del treno per trovare informazioni su questo tipo di disciplina. Arte che, sempre nella pagina web dedicata, viene descritta con gli stessi termini che trovi sui pannelli di un museo, dalla spiegazione del background dell’artista alle tecniche utilizzate, e non trovo che questa sia una scelta o un espediente ruffiano per accaparrarsi spettatori - come me - abituati all’arte più canonicamente esposta, ma che effettivamente non abbia nulla in meno delle opere chiuse in contesti ufficiali.  Parklife, oltre allo scopo sociale e rivolto al benessere del lavoratore che è impossibile non etichettare come lodevole, ancora di più se pensiamo riguardare un settore come quello della logistica dove il tempo è valore economico notevole, è un modo per gli appassionati di fare scorpacciata di street art, mentre stato per me - e spero per molti - un modo per scoprire un tipo di arte e di artisti mai considerato prima d’ora, esponenti più che degni di voce in capitolo nel settore. 



23 ottobre 2025, Samuele De Marchi



 

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