top of page

LA MODA DI MARTIN MARGIELA, CONCETTI E BASSO PROFILO

di Samuele De Marchi











“You know that we are living in a material world, and I am a material girl”, cantava Madonna nel brano “Material Girl” del 1984. Il testo è allegro, la musica altrettanto, la vita e il lifestyle degli anni Ottanta, ancora di più.

L’ ostentazione di fisico, sessualità e ricchezza è ai massimi storici; se non vesti colorato, non hai i capelli cotonati, non sei abbronzato, non sei muscoloso, non guidi una macchina veloce, non mastichi chewing gum dalla mattina alla sera, non vai in sala giochi, non guardi Magnum P.I. e non sogni di passeggiare con gli occhiali da sole sulla spiaggia di Santa Monica a Los Angeles, allora cosa stai facendo? Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, in Europa, Martin Margiela, classe 1957, dice basta all’eccesso di quel periodo, riportando la moda a uno status di basso, bassissimo profilo - rimanendo fortemente riconoscibile -, calmo, attento alle piccole cose, ai pensieri.

Lo fa controcorrente non solo verso un decennio intero di cultura e di prodotti, ma anche contro il suo stesso maestro Jean Paul Gaultier, noto a tutti come uno stilista provocatore, esagerato, sfacciato e spettacolare, pienamente affine e partecipe alle frequenze creative degli anni Ottanta. E se lo stilista belga abbassa il tono di voce con gli abiti, con la sua figura e presenza pubblica si ammutolisce del tutto: “non mi piace l’idea di essere una celebrità. L’anonimato è fondamentale per me, mi bilancia, mi fa sentire come qualsiasi altra persona” dice Margiela, e porta talmente con sé questa filosofia non solo non apparendo mai in pubblico, ma neanche in fotografie o interviste per la stampa, che vengono svolte via fax o e-mail; non cede neppure per il docufilm del 2019 “Martin Margiela: In His Own Words”, in cui espone solo le

Margiela, courtesy Amica

mani intente amostrare testimonianze della sua infanzia, fotografie e vestitini in miniatura come un burattinaio.

Sacrifica addirittura la sua firma a favore di tutto il suo staff chiamando il marchio “Maison Martin Margiela”, nome che sarà censurato ancora di più nelle etichette; sui capi infatti, una serie di numeri da 1 a 23 indicherà la linea di prodotti, e solo quattro punti di cucitura bianchi ci faranno dire “ah si, è Margiela”. La sua moda fa piazza pulita dell’oggetto e della merce intesa nel suo valore materiale, pratico e di utilizzo specifico; un immaginario gesto di stizza per ripulire una scrivania piena di cianfrusaglie, scartoffie e fermacarte, la formattazione dell’hard disk di un computer, un bianco suprematista alla Malevič che ricopre interamente il suo atelier di Parigi per lasciare spazio al pensiero, a ciò che non si vede. Ripartire proprio dalla mente come un neurologo - non a caso, lui e la sua equipe all’interno dell’ambiente di lavoro, indosseranno camici bianchi come scienziati e medici -. L’anonimato margieliano provoca crepe nelle abitudini di consumo sfrenato dell’epoca, spostando l’attenzione collettiva verso tipologie di prodotti esteticamente più umili, meno appariscenti; lui non vuole brillare, essere perfetto o famoso, ed è tutto ciò che in fin dei conti vuole far capire al pubblico. Nessuno sa quale sia il suo volto eppure tutti conoscono il suo nome, e un motivo ci sarà; la sua proposta di sensibilità e distacco dall’eccesso funziona, è tutto ciò di cui la moda aveva bisogno. Assieme a lui infatti faranno coro con pensieri analoghi gli “Antwerp Six”, sei stilisti che come Margiela studieranno alla Accademia reale di belle arti di Anversa raggiungendo le passerelle negli stessi anni, creando un vero e proprio giro di boa generazionale e stilistico della moda mondiale.

La formula creativa è estremamente concettuale, erede degli artisti contemporanei più originali e avanguardisti: il prodotto finale sarà ricco di componenti readymade dadaisti e new-dadaisti - tanto che avrà in esposizione una riproduzione dello scolabottiglie di Duchamp nel suo laboratorio -, oggetti e

Margiela, courtesy Hygsnobiety


casualità del Nouveau Réalisme e di Yves Klein, dematerializzazione di oggetti e concetti alla Kosuth, elementi performativi e la loro relativa registrazione come Yoko Ono. Alla luce di queste delle somiglianze, è inevitabile ammettere che si tratta di uno stilista alle volte difficile da comprendere, tra virgolette nascosto, complesso e non da tutti, vittima anche lui del famigerato “potevo farlo anch’io”. Parlando in termini pratici, possiamo partire già dalle origini della sua carriera e successo per dimostrare quanto sia solido il suo modus operandi; già dalla sua prima collezione per la primavera-estate 1989, Margiela fa sfilare le mannequins - spesso non saranno neanche professioniste - con il volto coperto, dando uno schiaffo morale alla cultura delle top model nata solo qualche anno prima e contemporaneamente sembra diffondere un messaggio molto chiaro: guardate gli abiti, nient’altro che gli abiti, e come si muovono attorno alle modelle.


Margiela, cortesy Nowfaschion

Non solo, ma le stesse indossatrici sfileranno dopo aver battezzato le scarpe in una vernice rossa lasciando dunque le impronte, la loro firma, la loro performance, sulla passerella; il tessuto di quest’ultima, verrà poi utilizzato per la collezione autunno-inverno 1989-90. Tutto per Margiela ruota attorno alla trasformazione sia fisica che concettuale dei materiali, dai più primitivi ai più raffinati proprio nel senso di “prodotto finito”. Utilizzare qualcosa al di fuori del proprio contesto per dargli nuova vita. Perché non unire questo riutilizzo alla nobilitazione del mestiere di couturier trasformando la tela grezza dei famosi manichini Stockman nel vestito stesso? Perché non ripetere il messaggio lasciando a vista tagli, tratteggi e imbastiture sul prodotto finito? Spingiamoci ancora più avanti lungo la catena di montaggio della confezione di un abito, usiamo anche i sacchi in plastica e il nastro adesivo per la protezione dei capi.

Prosegue la testimonianza di processi, performance e readymade creando pezzi composti da calzini e guanti cuciti assieme, manomettendo capi trovati ai mercati dell’usato per ricavarne nuove idee, riproponendo la sua vecchia collezione ma questa volta interamente in grigio; altre collezioni presenteranno invece i suoi vestiti ruotati di 45 o 90 gradi, altri ancora ingigantiti di numerose taglie, dai risultati e forme stranianti. Accompagna e stupisce ulteriormente la leggerezza dei prodotti e dei mezzi utilizzati per esprimersi, ribadendo ciò che è stato detto e - letteralmente - ciò che è stato fatto, stampando secondo la tecnica del trompe-l’oeil immagini di abiti anni Trenta su quelli contemporanei, disegnando maglie leggerissime color carne con la stampa di vari tatuaggi;

creerà gioielli fatti con cubetti di ghiaccio colorato,

Margiela, courtesy Nowfaschion

che lasceranno solamente una chiazza casuale di quello che erano, o lascerà crescere colonie di batteri su stoffe bianche incontaminate, che ne altereranno colore e texture.

Questi esempi, oltre a lavorare sul concetto di riutilizzo spostandolo dalle tre alle due dimensioni e viceversa, va a richiamare le effigi e i contenuti immateriali ed incorporei del digitale in grande sviluppo proprio in quegli anni, oltre che riconnettersi con energie intangibili e materie naturali e primitive come proposto dall’arte povera. Contemporaneamente al comando della sua maison, Margiela sarà anche a capo dell’illustrissimo marchio del lusso Hermès. Il suo approccio, dato lo spirito classico e l’heritage della casa da rispettare, sarà più pulito, con grande attenzione a tagli sartoriali e abiti dalle svariate funzioni, indossabili e trasformabili tramite istruzioni per l’uso; suggerisce infatti come trasformare un impermeabile in una borsetta, un cardigan in una tracolla e così via. Margiela abbandonerà le redini della sua maison nel 2008, esprimendo poi la sua creatività nel campo dell’arte contemporanea in cui otterrà ottimi riconoscimenti, mantenendo le stesse ispirazioni e poetiche che l’hanno consegnato alla gloria della moda.

Margiela, courtesy Nowfashion

Se in questa storia c'è una morale, è sicuramente il merito che va attribuito e riconosciuto agli spiriti artistici sinceri, onesti, corretti e coerenti; nessun gioco di denaro o opportunismo commerciale, ma limpida voglia di creare. Questo è l’alone lasciato da Martin Margiela in ogni sua creazione, un alto grado di leggerezza e raffinatezza. Niente di ricco, di visivamente o fisicamente rumoroso. Il retrogusto finale è quello di un positivo stupore quasi infantile, distante dalle provocazioni, da prendere, per essere apprezzato al massimo, con sincera ingenuità.


1 dicembre 2023, Samuele De Marchi



bottom of page