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JEFF WALL @ MAST - RECENSIONE

  • Immagine del redattore: Samuele De Marchi
    Samuele De Marchi
  • 19 nov
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 4 giorni fa

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di Samuele De Marchi


In occasione della settima edizione di FOTO/INDUSTRIA, la biennale organizzata dalla fondazione MAST - Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia - di Bologna incentrata questa volta al tema della casa, è stata allestita anche una mostra speciale dedicata a uno dei fotografi più rilevanti dei nostri tempi. Living, Working, Surviving di Jeff Wall, sarà visitabile negli spazi della fondazione gratuitamente fino all’8 marzo 2026. 

Il fotografo canadese classe 1946 ha ottenuto negli anni il riconoscimento dall’arte sottoforma di numerose retrospettive - l’ultima a Lisbona nel 2025 - e negli spazi del MAST vengono portate un totale di ventotto opere provenienti sia da musei internazionali che collezioni private selezionate da Urs Stahel, curatore di arte specializzato in fotografia, co-fondatore e direttore per oltre vent’anni della museo di fotografia di Winterthur. 



Il lavoro di Wall - come lui stesso lo definisce - insegue un risultato “cinematografico” sfruttando una fotografia ricca anche di elementi e codici tipici della pittura, ed è infatti considerato a partire dagli anni Settanta come uno dei principali apripista di questa nuova tecnica. Fotografie in grandi dimensioni che si spingono fino alla grandezza naturale, soggetti e dettagli posizionati in modo da creare un effetto simile a quello dei grandi maestri della pittura del passato, come Delacroix, Manet e Velasquez. Proprio i soggetti, vivi e attivi, sono chiaramente il fulcro delle opere di Wall, specifici nel loro ruolo e background e molto espressivi.

I soggetti di Wall sono persone comuni intente in azioni altrettanto normali tra lavoro, piccoli gesti ed abitudini, spesso appartenenti alla classe media o a quelle più socialmente marginali. Nonostante questa particolare concentrazione e la volontà di Wall di possedere il suo atelier in una delle zone di Vancouver più povere e ricche di senzatetto, l’artista non vuole concentrarsi esclusivamente su questa fetta di popolazione o sulle loro difficoltà per non intaccare il suo lavoro con vincoli estetici ed ideologici. L’obbiettivo appare quindi puro, semplicemente un racconto comune di gente comune. Comune sì, ma semplice non proprio: grazie alla sua tecnica, ai supporti e alle dimensioni utilizzate, il risultato è complesso e volutamente ambiguo, ricco delle contraddizioni del mondo occidentale e delle condizioni di vita di chi lo abita. Le fotografie di Wall sono sia scatti reali che ricostruiti in studio, a metà strada tra una messinscena specifica e l’improvvisazione: il fotografo sceglie la resa finale dell’azione, ma lascia poi agli attori - a volte effettivamente attori, altre persone casuali - una certa libertà; questo contribuisce alla possibilità di arricchire il significato degli scatti.

Tra i più evidenti tratti di unicità di Wall, oltre alle dimensioni estese, c'è senza dubbio l’uso delle Lightbox, pannelli incorniciati e retroilluminati usati solitamente per la comunicazione pubblicitaria: proprie della sua produzione artistica sin dagli inizi della carriera, le Lightbox rafforzano ancora di più il carattere cinematografico che Wall vuole dare alle sue opere, andando incontro allo spettatore. Il risultato, tra medium e dimensioni, è quello di un alto livello di immersione e coinvolgimento, non solo estetico ma anche e soprattutto emotivo.

Ho visitato la mostra in un giorno e un orario tale che mi permettesse effettivamente di cercare i significati nascosti dell’immagine, di potermi perdere per quel minuto in più in un dettaglio dello sfondo e di vedere la composizione da lontano, come se fossi seduto al cinema. Avevo anche con grande curiosità “tecnica” su come l’uso delle lightbox e delle immagini in grande formato potesse cambiare la mia percezione. La prima cosa che ho notato delle lightbox è che, senza il riferimento di una stampa tradizionale, la differenza da quest’ultima non è così lampante; certo la luce si fa vedere, ma la sua proiezione è nettamente meno invadente di quanto mi aspettassi, senza generare un “effetto schermo”. Mettendole a confronto con le stampe però, ho notato particolarmente la “voglia” che mi ha dato la luce di guardare l’opera da distanza ravvicinata, come se fossi una falena. Non so se questo fosse un effetto dei dettagli, della composizione o del supporto in sé, ma sta di fatto che dopo pochi minuti mi ritrovavo a pochi centimetri da una delle gigantografie esposte, e posso quindi confermare come Wall con qualche sua stregoneria ci avvicini alla scena. E devo dire la verità, con me in questo Wall gioca facile; rimango spesso colpito e tendo a preferire le opere di grandi dimensioni, più riempitive, ambientali. 

Nonostante le composizioni ampie e gli ambienti complessi che l’artista ci mostra, le persone non sono relegate a “punteggiatura” nel macro testo del setting della foto, ma sono gli evidenti protagonisti: l’effetto si nota ancora di più in quegli scatti in cui di persone non ce ne sono, ma si sente come siano luoghi che frequentano, teatri dei loro lavori e routine. Si percepisce negli scatti, nelle attività e posizioni dei soggetti una sorta di silenzio, a metà strada tra quello che si tiene in un momento di impegno o dopo una sconfitta. Se volessimo cercare qui il momento cinematografico, come ci “consiglia” l’artista, questi scatti corrisponderebbero a quelle scene di interludio, profondamente artistiche e ermeticamente significative, proprio quegli istanti in cui ti concentri sulla fotografia della scena e non sai più cosa aspettarti. Assomigliano a tratti anche a quegli scatti realizzati “dietro le quinte” durante i giorni di ripresa. 



Si ritrovano molto nelle fotografie le parole sia dell’artista che quelle del curatore della mostra; le immagini trasmettono questo senso di incertezza, domande sussurrate nella nostra testa che non fanno in tempo a trovare risposta perché già sostituite da altre, lasciandoci in quel piacevole limbo dell’osservare senza comprendere più di tanto tranne che quello che stiamo vedendo ci piace e ci incuriosisce. Cosa che invece può essere vista come positiva o negativa sempre legata a questa incertezza, è la mancanza di pannelli esplicativi o indicazioni sull’opera al di fuori dei paragrafi a inizio e fine mostra e agli essenziali “dati anagrafici” come titolo, anno, tecnica e provenienza. Perché se da un lato sarebbe bello sapere curiosità e specifiche delle opere, dall’altro ne verrebbe meno la loro natura di istanti complessi e naturali allo stesso tempo; quello spiegato è chiaro, e quello non esplicito deve rimanere tale.

Non conoscevo il lavoro di Jeff Wall, ma leggendo la sua poetica sapevo a cosa sarei andato incontro e ha rispettato le mie aspettative: racconti di una fetta di popolazione ai margini che trascende le generazioni, e come una casta rimane bloccata sul posto. Gente comune che fa cose comuni, tra chi lavora per vivere e chi purtroppo sopravvive. Molto visibile - e a volte condivisibile - la quasi malinconia dei soggetti di Wall, umiltà e in fondo tranquillità di chi si è adattato, che “tira avanti” spinti da il sogno ingenuo di equilibrio o dall’inerzia del fare quello che si deve fare.


Foto courtesy Ufficio Stampa MAST, alcuni scatti sono dell'autore.


20 novembre 2025, Samuele De Marchi


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