INTERVISTA A MATTEO RAMON AREVALOS
- Samuele De Marchi
- 26 feb
- Tempo di lettura: 10 min

di Samuele De Marchi
Ho visto Matteo esibirsi con la sua performance alla mostra di dipinti “Die Klänge des Rheins” di Roberto Pagnani all’Istituto di Cultura Germanica Goethe-Zentrum di Bologna, in occasione di Art City 2025, ispirata ai paesaggi e panorami sulle sponde del Reno, in Germania. Per l’esibizione, in una stanza semi buia venivano lasciate cadere delle palline colorate sulle corde del pianoforte su cui poi Matteo avrebbe suonato una composizione creata da lui, che saltava - proprio come le palline - dentro e fuori il confine dell’improvvisazione, mentre una videocamera riprendeva e proiettava la scena su un muro: il movimento imprevedibile degli oggetti, che guizzano in alto come un pesce fuori dall’acqua e il loro tintinnio solleticante, ricordavano lo scorrere del fiume e il suono di acqua e vento, rendendo la performance evocativa, a volte malinconica e gelida, altre più incalzante e rapida. Ho deciso poco tempo dopo di intervistare Matteo per fargli qualche domanda sulla sua vita, carriera e opinioni riguardo la creatività e l’essere creativi.
Ti sei avvicinato alla musica all’età di sei anni. È stato influenzato da qualcuno o qualcosa? Qual è il primo ricordo che ha della musica?
Ho iniziato a suonare all’età di 6 anni perché in famiglia suonavamo un po’ tutti, ma già dai miei primissimi anni dopo cena, mio padre - americano con origini messicane e nativo-americane - , mia mamma - triestina e abruzzese ma nata a Ravenna - e i miei tre fratelli ci mettevamo nella stanza del pianoforte e tutti suonavamo il proprio strumento. Io ho iniziato suonando a ritmo pentole e padelle come fossero delle percussioni, poi mia mamma piano piano mi ha comprato i primi strumenti, infatti la mia prima esperienza è stata con la batteria. Già all’età di 6 anni ero in un gruppo e suonavo con ragazzi di 18, ero un bambino prodigio, facevo un po’ la stella della band, ed ero molto più bravo con la batteria che col pianoforte. Tuttavia Non mi piaceva troppo essere al centro dell’attenzione, forse è il mio carattere, anche oggi sto lontano dallo star System a cui tutti ambiscono. Il pianoforte è arrivato dopo la batteria; era sempre li in casa ma mi incuteva timore. Era un pianoforte Bluthner a coda di fine ottocento. Ho iniziato prima a suonare da solo accompagnando mia mamma e improvvisando, poi sono passato allo studio: ho fatto un percorso da privatista entrando all’ottavo anno al conservatorio di Cesena dove sono stato per un anno e mezzo, successivamente a 20 anni ho studiato a Vienna, poi a New York con Oxana Yablonskaya che mi ha influenzato con la scuola russa. Per quanto riguarda lo studio sulla composizione, grazie a una borsa di studio ho imparato a Parigi con Narcis Bonet, grande docente, per poi iniziare il mio percorso lavorativo con compagnie teatrali contemporanee. La scuola russa del pianoforte credo mi abbia plasmato e insegnato tanto: a differenza di quella italiana, che si incentra su un movimento più articolato delle dita come fa ad esempio il pianista italiano Arturo Benedetti Michelangeli, la dottrina russa prevede un uso maggiore del corpo. Il peso viene dal braccio, dalla spalla, persino dai piedi, rendendo il suono più intenso, pastoso, corposo. La tradizione italiana del pianoforte, soprattutto a partire dalla metà del novecento viene principalmente dal clavicembalo, da una musica più barocca, e la scuola russa ha un po’ stravolto queste dinamiche tecniche.
Quanto è stato importante secondo te iniziare così giovane?
Per me è la scuola migliore, è come dovrebbero fare un po’ tutti i bambini se ne hanno la possibilità. A mio avviso non ha senso fargli fare lezione una volta a settimana con un docente, dato anche che ha ognuno la propria “fissazione” metodologica. Però ovviamente dipende dai casi: magari un bambino nasce in una famiglia ricca di talenti musicali e mentre altri provengono da dove non c'è nessun musicista ma incontrano un bravissimo insegnante che gli apre la mente, non c'è una regola in queste cose. Nel mio caso è stata un improvvisazione. Anche i miei fratelli suonavano ma erano più per la musica pop, io invece ho studiato musica classica come Bach e Mozart, tutto il percorso del conservatorio, cosa che faccio tuttora anche se mi concentro su musica più recente e le mie composizioni.
Come descriverebbe lo stato della musica sperimentale? C'è qualcosa o qualcuno che lei ha indirizzato verso questa strada?
È complicato mettere la musica sperimentale in relazione con l’arte figurativa: l’occhio riesce facilmente ad entrare in sintonia con un linguaggio contemporaneo, mentre l’orecchio anche di una persona che non se ne intende, può esserne infastidito. La musica sperimentale in italia è purtroppo una nicchia, negli Stati Uniti è invece normalità, come anche in Germania e Inghilterra. Nel nostro paese non ha una presa a livello commerciale e ciò ti limita, non riesci a farci un festival, al massimo puoi arrivare a musica di fine ottocento con Brahms, ma già dal Novecento inizia a spaventare l’ascoltatore. Fare musica sperimentale non è stata una scelta, ma mi ci ha portato naturalmente la curiosità, che fortunatamente ho sempre avuto. A livello concertistico mi ha aiutato fare esperienza con le compagnie teatrali, tra le prime Fanny&Alexander. L’ultima invece è stata con Claudia Castellucci alla Biennale di Venezia, con uno spettacolo - vincitore del Leone d’Argento - di danza in cui i passi dei ballerini riproducono la musica che rappresenta i canti degli uccelli di Olivier Messiaen.

La tua biografia sul suo sito dice che aver imparato dalla maestra Fiorenza Ferroni è stato fondamentale. Perché?
Io soffro di diabete e sono insulino-dipendente da quando attorno ai 10 anni: era un periodo in cui stavo molto male, e mi sono ritirato al secondo anno di superiori, concentrandomi molto sul pianoforte. Fiorenza abitava vicino a casa mia e mi ha aiutato molto sia tecnicamente che musicalmente, ma soprattutto a livello umano, psicologico. Ho fatto i primi concerti e qualche concorso sotto la sua guida.
Hai lavorato e ti sei formato assieme a tanti altri maestri, oltre a una formazione, ti è rimasto impresso qualcosa di loro dal punto di vista umano o dell’”essere artista” su cui fa affidamento?
In tutti questi viaggi - 3 anni a Vienna 3/4 a New York, 3 anni a Parigi - ho seguito questi docenti che erano in linea generale più incentrati sulla musica classica che sulla la composizione: ogni tanto gli facevo sentire i miei pezzi ma non si interessavano più di tanto. I professori erano molto bravi e magari ogni tanto a Vienna mi fermavo a cena dopo la scuola ma umanamente sono stati più le amicizie che ho incontrato che mi hanno aiutato e sviluppato, con cui ho instaurato uno scambio reciproco. I professori mantenevano le distanze.
Dalla tua biografia si nota che viaggi molto per lavoro e ti interfacci con numerosi paesi, culture e colleghi di nazionalità diverse. Pensi che questa caratteristica ti abbia aiutato nel tuo lavoro e che sia necessaria per un artista?
Al giorno d’oggi anche solo qua in Italia trovi tante persone che vengono dall’estero, però vivere certe realtà può essere molto importante. I miei professori soprattutto esteri non mi hanno seguito da vicino o aiutato a trovare concerti, devono farli anche loro quindi tu ti devi arrangiare, quindi queste esperienze non hanno il fine di trovare chissà che cose da fare ma vivere la propria vita quotidiana in altri paesi e in altre lingue. Per quanto riguarda il mio lavoro c'è tanta competizione soprattutto per il pianoforte classico ed è difficile emergere, tra concorsi e festival basati sulla logica di scambio. Trovo questa cosa allucinante, ci si dovrebbe basare sulla stima reciproca tra persone che fanno il nostro stesso mestiere: non credo che il futuro della musica saranno tutti questi musicisti che vogliono diventare popstar e suonare nei grandi teatri, ci sarà un tracollo di questo star system.
Nelle tue collaborazioni vari dalle performance alla pittura, dalla letteratura alla musica più pura. Come e perché scegli con chi collaborare? C'è di più oltre la stima professionale?
Tutte le mie collaborazioni sono nate suonando con vari gruppi teatrali, sono nate in modo organico senza cercare, anche se ancora oggi scrivo mail per cercare collaborazioni. Spesso quando partecipo a spettacoli teatrali mi attengo all’idea del regista, e con la mia musica cerco di essergli utile al di la della mia personalità. Per le musiche di film e cortometraggi ad esempio ho collaborato con Elisabetta Sgarbi lavorando su grandi artisti come Raffaello, stando fino alle 4 di mattina dentro la Cappella Sistina. Le mie composizioni sono sempre nate senza commissioni a parte qualche eccezione, i miei album sulle piattaforme social e di streaming ad esempio sono totalmente mie. Un progetto di cui sono regista e di cui vado molto fiero è con la cantante e attrice Camilla Lopez, la mia compagna. Abbiamo fatto vari progetti ma l’ultimo è “Theleion”: lo abbiamo realizzato prendendo frammenti di musica antica greca scoperti dagli archeologi, raffiguranti anche disegni sopra i testi, dato che il poeta lavorava a stretto contatto con il musicista. Archeologi e musicologi hanno definito questi frammenti di tracce, che io preso ricercando a fatica su tanti libri e li abbiamo portati in concerto, vincendo il premio come 5 migliori album dell’anno 2024 secondo la Tonight Music, una piccola casa discografica estone ma curata molto bene.
Come nasce invece la collaborazione con Roberto Pagnani?
Con Roberto ci conosciamo dalla fine degli anni Novanta, ora siamo proprio amici. Abbiamo fatto vari progetti insieme, prima una performance dinamica dal titolo “Variazioni sull’Angolo Diedro” nel 2008 con Roberto con le sue scenografie, Riccardo Bottazzi come scultore, Domenico Settevendemmia come poeta e scrittore e io con le musiche. Uno spettacolo di 5/6 date in giro per qualche festival. Poi con Roberto già dal 2010 sperimentavo con il pianoforte video-preparato, fino allora mai stato fatto. Per l’atto di aggiungere oggetti sul pianoforte pensavo un po’ ai bulloni sul pianoforte di John Cage, e lo feci per la prima volta con dei sassi sempre con Elisabetta Sgarbi in un concerto per ricordare il terremoto di Modena, preparandolo tra l’altro all’ultimo momento. Io e Roberto invece abbiamo usato i suoi elementi polimaterici e sempre con la videocamera li abbiamo portato al Ravenna festival, a Buenos Aires e a Mosca.
Non è la prima volta che usi delle palline da ping pong per una tua opera: hai già utilizzato questo oggetto nel 2015 a San Pietroburgo. Perché ha ideciso di riproporlo? Qual è stata la loro parte nelle rappresentazioni dei quadri?
A San Pietroburgo le ho usate durante un convegno scientifico sulle equazioni di Beltrami, e sulle palline scrissi le sue equazioni che muovendosi cambiavano combinazioni. L’ho riproposto perché sono sempre stato legato all’arte figurativa e di conseguenza anche agli artisti che la praticano. Anche quando ero piccolo ad esempio suonavo già le corde del pianoforte con delle bacchette felpate, quindi c'è sempre stato un contatto fisico con il pianoforte. Nel caso specifico dei quadri di Roberto, che rappresentavano il movimento casuale dell’acqua oltre a ricordarne il suono assieme a quello del vento. A livello musicale forse è stata quella in cui mi ci sono ritrovato di più. L’artista ha posizionato degli oggetti sul pianoforte che ovviamente non lo danneggiano in nessun modo. Durante la performance c’era una struttura di 5 fasi che si apre e si chiude in maniera simile, non era semplice improvvisazione, anche se in certi momenti guardando il movimento delle palline potevo decidere come muoverle.
Hai composto e collaborato spesso nella creazione di colonne sonore per film: trovi che questo “ambiente” ti permette di brillare particolarmente? Perché?
Dipende forse dal tipo di film: sono un musicista che utilizza solo il pianoforte e faccio fatica a usare l’elettronica, non ho conoscenze e non mi ci vedrei neanche troppo perché mi piace più la musica analogica fatta con lo strumento di legno, magari trovo difficoltà a creare qualcosa di grande effetto. Ho sempre fatto suoni artigianali anche che sembrano al computer, mi concentro su progetti che possano fare al caso mio. Ad esempio per un cortometraggio e un concerto sui 4 elementi dal titolo “Partitura Gestuale” ho registrato dei suoni dentro le torri Hammond di Ravenna: entrando in questi silos ho trovato dei pezzi di ferro che lanciavo contro le pareti per produrre un suono che sembra a tutti gli effetti digitale, ma non lo è.
Tra le più iconiche del cinema e non, quale colonna sonora avresti voluto scrivere?
Nessuna, sarò timido ma sono fiero e geloso delle mie cose! Quando ascolto altre colonne sonore provo grande stima per chi le ha composte ma niente di più. Ovviamente stimo gli storici Ennio Morricone e Hans Zimmer, che in concerto è molto espressivo.
Che cosa ti gratifica dell’essere artista?
Non sono mai contento al 100% e penso sia normale, ma le cose che nascono così un po’ per caso e si rivelano vincenti sono quelle che mi danno più soddisfazione. Nello specifico sono molto contento del documentario su Raffaello e il lavoro fatto nel 2017 per Late Penang Afternoon con il regista Hanspeter Ammann, che per l’occasione ha scelto attori non attori.
Se dovessi darti una sorta di “manifesto”, che cosa diresti?
Sicuramente il principio di utilizzare certi tipi di suoni: il mio limite o caratteristica è usare solo suoni analogici fatti con le mie mani, possiamo dire da artigiano. Un altro mio obbiettivo è essere spontaneo e cercare di coinvolgere con la musica, far entrare nei miei progetti le persone non per motivi economici ma per solidarietà verso ciò che facciamo, riuscire ad entrare in sintonia con chi collaboro, anche se è difficile e purtroppo date le innumerevoli variabili non può essere considerato come un principio.
Ti chiedo ora la stessa domanda ma con due riferimenti diversi: hai qualche progetto per il futuro su cui vorresti lavorare? In termini invece di “sogno” che cosa hai in mente per il futuro?
Nell’immediato sto lavorando sempre con Camilla Lopez a un progetto di Anna Capra su un Caravaggio che è stato rubato e mai più ritrovato, ma al suo posto c'è una copia bellissima. Io ho trovato i testi originali di Caravaggio come l’interrogatorio in tribunale e un contratto fatto con Fabio de Nutis a Roma, io ho messo in musica le loro parole e ho compreso anche Bernardo Strozzi, un’artista molto influenzato sempre da Caravaggio. La performance è videoproiettata e per la parte dell’interrogatorio ci saranno delle pergamene sulle corde del pianoforte. Mi esibirò al finissagge della mostra su Strozzi e Caravaggio organizzata in Estonia dall’ambasciata italiana. Io e Camilla stiamo lavorando anche al prossimo congresso per la tutela degli oncologi e cercheremo di portare in autunno 2025 il nostro Theleion negli Stati Uniti.
Per il futuro in termini di sogno mi piacerebbe avere più tempo per completare un pezzo dedicato a mia mamma, che ho perso all’età di 20 anni.
27 Febbraio 2025
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