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INTERVISTA A GIORGIA SCHVILI: UNA STORIA INSOLITA, INCOSCIENTE, INASPETTATA.

di Samuele De Marchi












Ho incontrato Giorgia Schvili, moglie di Emmanuel, durante la mia visita alla sua mostra monografica “Una camicia In-solita. Emmanuel Schvili, storia di un brand”, allestita durante Art City a Bologna in occasione di Arte Fiera (dal 1 al 4 febbraio 2024 al Complesso Museale del Baraccano); una mostra che aveva come obbiettivo quello di mostrare, dare valore e atto a una realtà creativa ed imprenditoriale di successo nel campo dell’abbigliamento - puramente italiana -, e chiacchierare con lei mi ha fatto capire tanto su un tempo e un lavoro passato, ma che a distanza di anni e di cambiamenti sotto tutti i fronti trasmette ancora consigli preziosissimi, fascino, grinta e orgoglio, anche grazie alla lungimiranza innegabile che hanno avuto, sentimenti che non vi nascondo aver provato anche io sentendo le sue parole.

 

Partiamo dagli inizi: ancora prima della fondazione del marchio nel 1969, c’era già stata esperienza nel mondo dell’abbigliamento o degli studi o è nata completamente da voi?

 

Il tutto è nato completamente da noi; io ho fatto le scuole magistrali ed essendo una grande sportiva avrei voluto fare l’istituto sportivo, ma papà era un po’ all’antica e Modena era troppo lontana - da Bologna, ndr - quindi mi sono iscritta a psicologia, mi piaceva parlare ed entrare in sintonia con le persone. Personalmente non ho mai comprato un vestito in boutique, avevo l’abitudine di andare da una sarta e farmi fare abiti e accessori. Già allora  si trattava di pezzi unici e personalizzati, ora pratica diffusa e ricercata, per trovare un collegamento tra allora e i giorni nostri.

Ho ancora oggi una sorta di “sesto senso estetico”, capisco appena entro in contatto con dell’abbigliamento se c'è qualche dettaglio con del potenziale creativo da sfruttare, ci ha aiutato molto questa qualità.

 

D.: Si può dire riassumendo che tra lo sport, la psicologia e la personalizzazione, si trattava di una cura della persona generale dunque?

 

R.: Sì, più nello specifico mi è stata di grande aiuto la qualità dello sport di renderti forte, farti tirare fuori “la cazzimma”, come dicono a Napoli.

Dopo aver conosciuto mio marito Emmanuel casualmente - a Riccione, poi rivisto a Capri - , per riuscire ad avere il permesso di mio padre di vederlo, aprimmo un negozio in Piazza Duomo a Milano che rifornivo con i prodotti creati qui a Bologna, quindi la nostra storia lavorativa nasce contemporaneamente a quella d’amore. Già da subito iniziai con la ricerca e la sperimentazione per i capi, andavo ad esempio con mia sorella a prendere i velluti utilizzati dagli Hippies dell’epoca direttamente a Londra a Kensington Market, oppure con le stoffe per tovaglie realizzavo bikini, gonne e kilt, che ebbero grandissimo successo tra le signore di Milano; ora lo scarto e il riciclo vanno di moda, ma all’epoca era insolito. Per il negozio di Bologna, aperto successivamente in via Oberdan, avevamo allestito una postazione per cucire direttamente in vetrina, e proponevamo invece abiti lunghissimi fatti con elastici. Per riassumere, abbiamo iniziato in modo insolito ed incosciente ma sicuri di noi stessi, senza arroganza o megalomania.



Qual era la divisione dei compiti tra lei e suo marito?


Io sono sempre stata più artista, più “mente”, mentre mio marito aveva in mano gli aspetti commerciali e aziendali della nostra attività; possiamo forse dire che lui era il “braccio”, aveva tra le mani le decisioni finali sui prodotti.

Per raccontare un aneddoto divertente a riguardo, quando io ed Emmanuel andavamo a Francoforte a comprare i tessuti, i responsabili ci chiamavano “madame oui” e “monsieur non”, perché io avevo idee stravaganti e volevo sempre spingermi oltre, mentre mio marito aveva una mentalità più razionale, classica, da imprenditore.

 

D.: Proprio riguardo questa ultima parola, la vostra firma è esplosa durante gli anni Ottanta, nel pieno splendore della moda e dello stilista come lo intendiamo oggi.  Vi sentite più imprenditori o artisti?

 

R.: Più che imprenditori o artisti direi commercianti, mi sento una “donna prodotto” perché personalmente non mi sento di appartenere a nessuna di queste due categorie. Dal punto di vista creativo, nello specifico, io mi immaginavo tutto ma non sapevo disegnare bozzetti, avevo però dei ragazzi che facevano un lavoro bellissimo che è esposto nella nostra mostra.



D.: Passando a parlare proprio dei prodotti, la camicia è diventata il vostro prodotto di punta o lo è stato sin dagli inizi?

 

R.: La camiceria è stata fin da subito il punto di partenza, e abbiamo fatto delle  sue tante evoluzioni e decorazioni la nostra forza; prima erano solo stampate, poi ci abbiamo aggiunto i ricami fino ad arrivare al famoso “pettino”, una tecnica che permetteva al disegno sul pezzo di non essere interrotto dal cannoncino e dai bottoni. Poi ancora plissé, volant, pitture realizzate a mano e trompe-l’oeil fatti in abbondanza, tutte tecniche decorative che si sviluppavano in parallelo alle camicie cartoon. Anche i nostri pantaloni hanno riscosso grande successo, oltre alle capsule collection e partnership tra marchi di cui siamo stati precursori.


A proposito di partnership, non possiamo non parlare di uno dei vostri più grandi successi: come è nata la collaborazione con Warner Bros.?

 

Negli anni Novanta io e mio marito eravamo ad una fiera espositiva a Milano, quando è entrato un rappresentante della Warner chiedendoci se volessimo acquistare qualche loro licenza e Emmanuel si è innamorato subito di questo progetto; siamo partiti direttamente sviluppando l’abbigliamento da adulto nonostante i soggetti raffigurati fossero dei cartoni animati, per poi arrivare anche alle linee da bambino e neonato.



E come mai questa idea di partire proprio dall’abbigliamento per adulti nonostante i soggetti della collaborazione?

 

Perché mio marito, dopo aver vissuto negli Stati Uniti, sosteneva che là gli adulti sono tutti dei giocherelloni, allora perché non mettere questi cartoon su prodotti dedicati proprio a loro? Abbiamo avuto come conferma del successo di questa scelta anche lo star system di quel tempo: erano infatti le agenzie di Massimo Lopez e Fiorello ad esempio a cercarci, e dati i prodotti per bambini anche Paola Perego, che all’epoca aveva due bimbi piccoli voleva i nostri vestiti, e ci cercavano proprio per loro, per indossarli loro stessi.

Nonostante questo inizio casuale e fortuito siamo arrivati sino ad ottenere nel 1995 il Topolino d’oro, il riconoscimento riservato dalla Warner Bros, ai migliori licenziatari dell’anno. Non è stato ovviamente un processo semplice, quando facevamo i disegni per i vestiti dovevamo attenerci agli originali e un responsabile della Disney doveva approvare ciascuno di loro. Hanno tutti sempre passato l’approvazione, l’unico che ci fecero ritirare fu Paperino in versione militare, protagonista di una vetrina in via Solferino a Bologna che avevo allestito personalmente tutta a tema, con sacchi a pelo militari e altri oggetti che avevo preso a noleggio; il motivo fu perché per le sue caratteristiche, Paperino non può essere violento.

 

C'è stato dello scetticismo nei confronti di questa collaborazione inizialmente?

 

Sì, c'è stato scetticismo da parte dei rappresentanti perché non erano piaciuti i prototipi dopo aver fatto i contratti. Mio marito invece ha deciso di rischiare e ne ha fatti migliaia, poi distribuiti e mostrati ad altri rappresentanti. Da parte nostra c’era invece grande convinzione, ed Emmanuel è stato bravissimo, oltre che per la gestione della parte contrattuale ed amministrativa, anche nello scegliere quali negozi e quali vetrine avrebbero mostrato i nostri prodotti; in via Vittorio Emanuele a Milano c’erano già grandi vetrine come quelle americane che mostravano gigantografie dei personaggi, e attorno al negozio mettemmo per terra le impronte dei protagonisti che conducevano e guidavano il consumatore verso il negozio.

Anche quando presentavamo le nostre collezioni in show-room arricchivamo l’esperienza con attenzioni, come il carretto per le caldarroste, per la voglia di mostrare le cose con cura.

Non ci è sfuggito proprio niente, se qualcuno mi chiedesse cosa avremmo fatto di più non saprei come rispondergli.

 

Da come ne parla sembra più che orgogliosa, ma vorrebbe essere ricordata anche per altro oltre alla collaborazione con Disney?

 

No, sia io che mio marito ne andiamo molto fieri, perché ciò che abbiamo ottenuto è il risultato di tanti successi e tanti sacrifici, dato che contemporaneamente al lavoro che svolgevo personalmente sul campo crescevo cinque figli - ad esempio -.

Per raccontare qualche aneddoto sulla gratificazione e soddisfazione che ricevo, quando sono in posta e chiedo una raccomandata a nome “Schvili”, tutte le persone scattano dicendo cose come “Io ho una vostra felpa! Sono indistruttibili! Mia figlia me la voleva portare via ma ho detto che quella non si tocca!”. Una volta invece andai in un mercatino in cui vendevano una nostra felpa a quaranta euro; vedendola dissi ironicamente che non fosse proprio a buon mercato, e il proprietario mi rispose “Ah ma signora, questa  è di Schvili!”. Anche solo mia nipote poco fa ha comprato in un negozio vintage tre felpe senza sapere fossero nostre.

 

Parlando invece dell’ambiente al di fuori della vostra attività, com’era il rapporto con altri stilisti o personaggi del settore?

 

Era un bellissimo e puro rapporto di amicizia, sia coi clienti che i concorrenti;

A Parigi andavamo a vedere i tessuti e dopo cenavamo tutti insieme, era proprio un altro mondo. Non c’era alcuna gelosia neanche tra i competitori, anzi ci passavamo persino i nominativi dei clienti. Tra gli stilisti con cui avevo un buon rapporto, ricordo ad esempio Valentino, Iceberg, Gianfranco Ferré, Walter Albini, Versace e Moschino. Oggigiorno, anche grazie alla mostra, mi sono resa conto tristemente invece della freddezza delle persone; io che sono una persona che dà tanto, l’ho percepito anche quando, dopo gli inviti, a volte non ho ricevuto nemmeno un augurio di buona fortuna.


 

Collegandoci ai tempi già recenti, ultimamente la moda in generale a livello produttivo sta rientrando in Occidente dopo essersi spostata ad oriente. Voi siete sempre stati in Italia, ma c'è mai stata voglia o necessità di andare a produrre all’estero?

 

Noi non siamo neanche made in Italy, ma proprio solo “made” in Emilia-Romagna e Marche, quindi no mai. A partire dalle etichette che si possono vedere alla mostra, venivano fatte fare a sette laboratori diversi; uno con le paillettes, un altro con le borchie e così via, quindi era impossibile già da questo esempio spostare la produzione all’estero, perché volevamo avere il controllo totale sul nostro prodotto, basando sempre tutto su ciò che ci piaceva.

Saremo stati incoscienti, forse, ma non abbiamo mai programmato nulla, neanche i figli, è arrivato tutto così naturale. Dico questo anche per far capire che tutto ciò abbiamo guadagnato è stato investito sempre sulla famiglia e mai solo su noi stessi; nonostante la grandezza abbiamo avuto una mentalità da azienda di famiglia. Anche per le vacanze si aggiungevano a noi amici, i miei nipoti e ad esempio anche il figlio del magazziniere - che erano figli unici -, per non farli sentire soli.

Non ci scoraggiavamo nei periodi di crisi, anzi investivamo in modo che quando la situazione si fosse ripresa, noi saremmo già stati in prima fila.

 

Parlando della mostra e della capsule collection con il corso di fashion design, com’è nata la collaborazione?

 

Anche qui grazie a tanta voglia ed entusiasmo di trasmettere ai giovani; non è stato l’unico progetto recente, abbiamo fatto anche noi una vendita di “prodotti al kilo”, workshop alle Aldrovandi-Rubbiani in cui tentavo di insegnare che cosa cercano nel mondo del lavoro dai giovani studenti; al corso di Culture e Pratiche della Moda ho tenuto un laboratorio sui packaging, per staccare un po’ dalla moda. Da qui la presidente del quartiere Santo Stefano di Bologna, Rosa Maria Amorevole, ci ha messo in contatto con la professoressa Rossella Piergallini, coordinatrice del corso di fashion design dell’Accademia di Belle Arti di Bologna. Penso sia importante per i giovani collaborare e lavorare anche con persone anziane del settore e non solo con altri giovani o influencers.

 

La nostra mostra è stata per noi un successo, abbiamo avuto più di trecento firme di partecipanti. Il mio obbiettivo ora è quello di trovare una seconda casa e un utile al nostro archivio; non per forza di vendita, ma anche solo archivio, che non sia un’esperienza persa perché sarebbe un peccato.

 

Quindi che cosa consiglia ai giovani che vogliono entrare, in un modo o in un altro, in questo ambiente?

 

Di essere umili, sporcarsi le mani e avere un obbiettivo, perché è essenziale per arrivare da qualche parte in questi mestieri, ci vuole della fatica. In molti dicono che il fine settimana devono andare al mare, sono troppo viziati e diventa un problema.

Mio suocero diceva che il “no” è sempre in tasca; qualcuno in un qualche momento ti rifiuterà, ma tu giocati bene le tue carte che tanto tutto serve, che siano esperienze o persone, anche se non sono piacevoli.

 

Come vede lo stato della moda attuale? C'è qualcuno nel mercato che vi ha colpito o vi ricorda ciò che avete realizzato voi?

 

Stilisti che mi piacciono attualmente sono Scervino - con cui all’epoca avevo anche affinità di stile - e anche l’ultima sfilata di Louis Vuitton, soprattutto i denim e i bottoni turchesi in stile western.

Noto ora però grande calma piatta. Ci rimango male quando vedo nomi grossi che non sfruttano delle potenzialità, quello che manca è tanta emozione, non c'è nulla che colpisce. Per questo credo molto nella forza delle capsule collection: ti permettono di farti conoscere con delle “pilloline”, pochi pezzi ben pensati e lavorati con classe.

 

Avrebbe qualche consiglio a riguardo su come produrre, come fare moda?

 

Come ho già detto, poche cose ma ben pensate e fare qualcosa che colpisca. Quando facevamo i campionari, sul fondo mettevamo sempre quello che chiamavamo “l’inaspettato”, letteralmente una capsule che non c’entrava niente col resto: se la collezione era tutta basata sui fiori, questi ultimi pezzi invece avevano come tema gli animali. Ora è importante anche legare il vintage a quello che proponi. Un’altra cosa di fondamentale importanza è raccontare una storia, far sì che ciò che si realizza sia solido nella sua interezza, che abbia un senso.

 

Concludiamo con tre aggettivi per descrivere il vostro marchio.

 

“In-solito”, “in-cosciente” e “in-aspettato”. Perché non c’era finalità o aspettativa, e se sei incosciente, sei di conseguenza anche inaspettato, sia per chi produce che per chi riceve.

 

 

Io che vi scrivo ho da poco compiuto ventitré anni, ma quando ho detto ai miei genitori - entrambi classe 1965 - chi avrei intervistato, ho capito subito quanto dovessi andare fiero di ciò che stavo per fare. Mamma, come se stessimo parlando di una vecchia amica delle scuole, mi disse di ricordare Schvili per la sua qualità e per quanto fosse stata presente per la sua generazione e per i loro anni più giovani, addosso a mille corpi e mille ricordi.

Alla luce di quanto detto, è chiaro che il “ricordo” di cui parlo e il “passato” utilizzato come tempo verbale durante tutta l’intervista, più che essere nostalgico viene usato come testimone di esperienza, fonte di motivazione e affermazione di valore di una storia, che si vuole e si deve proteggere e riportare alla coscienza collettiva, in un modo o in un altro.


Photo: Courtesy Svhili Press Office


16 febbraio 2024, Samuele De Marchi


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