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Intervista a Alessandro Rivola

Alessandro Rivola fotografo Bolognese, anche se non per nascita, è uno stimato artista dell’immagine nonché figlio d’Arte: la mamma una nota e appassionata Gallerista sino a poco tempo fa titolare della celebre Galleria Studio Cavalieri; ed il padre, conosciuto con lo pseudonimo Rowlia, affermato artista romano degli anni ’70 che scelse Bologna come punto strategico per vivere e lavorare.

Lo abbiamo incontrato in una piacevole serata di giugno, in un momento liberatorio dopo la pandemia che per mesi ci ha costretti al distanziamento, e con grande piacere ci ha concesso un’intervista rivela-

tasi una amichevole chiacchierata tra amici che si conoscono da sempre.

Artista attivo sin dai primi anni ‘90, il suo excursus artistico lo ha visto abbracciare completamente la fotografia, dopo averla scelta analogamente come professione lavorativa, nell’incertezza di voler diventare altrimenti un musicista.

.La fotografia viene dapprima affrontata come atto concreto, come procedimento fisico nella resa del prodotto finale, dallo sviluppo in studio alla trasposizione in elaborati di grandi dimensioni per realizzare i suoi più noti “affreschi fotografici”, in cui la stampa diviene muro per lo sconfinamento dell’immagine dal suo tradizionale supporto, sempre utilizzando però il media analogico con sapiente maestria, che gli ha permesso di ottenere un risultato scenografico di grande impatto emotivo.

L’approdo al digitale non ha sortito una riduzione della qualità del lavoro, perché la ricerca artistica di Rivola, pari passo con quella professionale più contemporanea, ha abbandonato il mezzo tecnico originario ma non l’intenzione di avvalorare sempre il risultato finale, sapientemente reso nei suoi lavori come selezione della perfezione: se inizialmente dietro l’obiettivo l’abilità del colpo d’occhio coglieva l’originalità del soggetto ricreato e ambientato, i soggetti delle sue ultime opere vengono esaltate oggettivamente dal frame perfetto e non manipolato dopo lo scatto, con un esito che si può definire “scultoreo”, dato dalla valorizzazione del dettaglio e del minimo particolare che rende il tutto di una eccezionale perfezione.

Un maestro dell’immagine dunque, che nel panorama italiano ha la valenza aggiunta di essere un colto e attento testimone di un contesto culturale che per quest’artista ha la funzione di stimolo e ricerca continua, pur in tempi critici di repressione e smarrimento della creatività.

Gli ho rivolto alcune domande, dunque, per approfondire la sua conoscenza e quella del suo lavoro.

D: Da sempre hai svolto la tua professione sia come artista che come fotografo professionista, tu come ti senti? Più l’uno o più l’altro? Anche se in Italia quella dell’artista non è considerata una vera e propria “professionalità”…

Io mi sento un fotografo, ed in questo c’è tutto. A volte lavori per far dei servizi per altri e comunque ci metti sempre del tuo, a volte fai delle cose tue e hai carta bianca, a volte - l’arte, magari in occasione di una mostra, e comunque la fotografia è un mezzo che, ormai, si può dire artistico.

D: Mi parli dell’evoluzione del tuo lavoro? Tu sei partito da un mestiere in cui c’era l’intervento fisico, nel pre digitale, ad un lavoro più artistico nel senso di un intervento manuale del fotografo, ad uno più tecnico, dove il mezzo permette di intervenire nell’elaborazione del risultato finale. Mi descrivi un po’ questa tua evoluzione?

I primi lavori che ho fatto sono stati proprio una ricerca sul materiale, ero stanco di usare sempre la carta, il formato legato al foglio, 20/30, 30/40, 50/70, 70/100…insomma i formati standard. Per cui ho cominciato a usare il bromuro d’argento, delle soluzioni chimiche proprio per abbandonare la carta e il formato. Allora scelsi delle tavolette di legno e le resi sensibili, le stampavo come fossero fotografie, usavo le emulsioni fotografiche. Questa cosa è sfociata in un lavoro del ’91, con una prima mostra a San Marino per il progetto Arte Giovani, dove feci un’opera che consisteva, appunto, nell’emulsionare una foto direttamente sul muro in uno spazio positivo, che era una chiesa abbandonata …


D: L’”affresco fotografico”?

Esatto! L’affresco fotografico grande tutta la parete, dunque mi sono buttato in quest’avventura perché così grande non lo avevo mai fatto; però mi son detto se funziona nel piccolo, funziona anche nel grande, e mi sono lanciato in questa idea senza averla mai provata, ed è stata un’esperienza bellissima! … è durata tutta la notte, con gli altri artisti che mi sono venuti a dare una mano, perché questo lavoro comincia all’imbrunire sino la mattina dopo, con il grande nemico naturale che è il Sole. E’ lui il grande antagonista, o meglio, la luce in generale. Avevo dei tempi strettissimi perché non potevo chiudere completamente la chiesa e oscurarla, per cui ho fatto questo lavoro basato sul fattore tempo. Ed è venuto anche bene, secondo me. Quello fu uno dei primi lavori che poi rifeci anche allo Studio Cavalieri nella mostra ”In media”, anche lì feci il “Due ma non due”: erano sempre emulsioni fotografiche dove c’era lo sdoppiamento del corpo, ed era un lavoro in quel periodo legato ad un fatto psicologico, al non potersi mai esprimere, a non poter essere mai sé stesso, ad avere questa ambiguità; per cui giocavo con la fotografia con la forma del doppio, e così è stata la serie dei visi schiacciati, sempre emulsioni fotografiche anche quelle legate alla difficoltà di essere sé stessi in ogni circostanza, di non poter esprimersi, nacque così la serie di visi e di corpi schiacciati …

D.: La serie sottovetro presentata anche da Alice nel ‘94?– (ndr A.Rubbini, critica d’arte)

Esatto! Inventai questo velo invisibile … e là ho usato una serie di personaggi, ho coinvolto l’amico avvocato, l’amico Freak Antony, perché chiunque ha questo problema di poter essere se stesso, ed io in quel momento lo sentivo particolarmente.

D.: Ti fermo a questo proposito con una domanda che ti avrei voluto fare in seguito. Nel tuo momento creativo cos’è che prevale: è la scelta di un modello da ritrarre che t’ispira l’idea e su questo la sviluppi, o piuttosto hai l’idea e poi la sviluppi su diversi soggetti?

Diciamo che mi vengono delle idee ed ogni tanto me le scrivo, ogni tanto succede anche che me le scrivo e mi scordo di rileggerle, però se mi piacciono in modo particolare, cerco di svilupparle. Magari non lo faccio subito, lo faccio dopo un anno, due, tre, non ho l’ansia di produrre e forse questo è quello che mi permette anche di cambiare genere completamente, infatti, poi sono passato dai lavori dello schiacciamento ad altri sull’infrarosso. Quello è stato un lavoro con una performance che ho fatto dalla Anna Carretta, alla Galleria Quattro e mezzo x Quattro e mezzo di Parma, ed era un serie che si chiamava “Seduto”: in effetti, io ero seduto su una sedia e c’era un sonoro che riproduceva i suoni del quotidiano, dall’andare in bagno ai rumori di casa o di quando uscivo; mi ritrassi stando seduto, come se fossi nell’inutilità della presenza del mondo, dove tutto andava avanti ed io stavo fermo. Era un periodo molto simile a quello di adesso … l’ho forse anticipato (e ride)


D: Mentre tu facevi questi lavori, avendo avuto delle fasi, la tua professione di fotografo di moda, la tua professionalità “altra” come si sviluppava, ricordi cosa stavi facendo?

Mah, facevo comunque ritratti o servizi di moda, still life, le cose che faccio a livello artistico, però magari in questo c’è il modello, c’è la produzione che t’induce il soggetto, lo still life non è pubblicitario ma magari è un’altra cosa ...

D: E tu lavori sempre in studio? Sì, o anche fuori, all’aperto ma la location la studio e la scelgo io, a meno che il cliente non abbia deciso altrimenti. Questo a me va bene, anzi anche meglio, quasi sempre…

D: Quindi anche il gallerista può diventare il tuo cliente, meglio il committente? Nel senso che se il gallerista ti propone di fare una mostra a tua scelta … succede anche questo? Sì, succede, e quando succede, è fantastico! Quando questo accade, tutte le cellule del corpo si animano per inventare delle cose, almeno io sono così, quando ho un obiettivo faccio di tutto per raggiungerlo e fare la cosa migliore!

D: Quando si sono inserite artisticamente le performance? Quello è stato negli anni ’90…

D: E sei appartenuto a qualche corrente, anche di artisti locali o attivi a Bologna, o ci sono stati dei gruppi di artisti a cui eri vicino? Mah, dopo i Medialisti e la Transavanguardia non si può più parlare di vere e proprie correnti; sono stato -del gruppo degli artisti del Campo delle Fragole, che sentivo molto vicini per questioni di pensieri e di amicizia, anche col Depot, con Michele Mariano e Jannis Kopsinis, che erano una fucina di idee; realizzammo mostre molto, molto belle tra cui quella fatta alla galleria d’Arte Moderna di Bologna, dove realizzammo anche una partita di calcetto da un’idea di Mariano che si sviluppava tra artisti giocatori e poi c’era Giancarlo Politi –(ndr editore di Flash Art)- che faceva l’arbitro, Giacinto di Pietrantonio lo Speaker, Baldini l’allenatore di una squadra …

D.: Una partita-performance a trecentosessanta gradi, perché coinvolgeva artisti, galleristi, editori?! … Davvero, c’era anche la Betta Frigeri –( ndr gallerista) – c’erano tanti personaggi dell’Arte e c’era un’energia particolare, difficile in questo momento da ripetere … e sempre dagli artisti nasceva l’idea, in quel momento lì c’era un bel fermento, sarà stata anche la gioventù che ci accomunava.


D: E come fotografo come ti rapporti con le altre forme artistiche? Le trovi consimili, t’ispirano? Ho visto che sei passato da una fotografia, se si può dire, più “pittorica”, in cui i soggetti e l’artefatto erano appunto più simili ad un’opera di tipo pittorico; a una più oggettiva, in cui la tecnica ha prevalso nella resa del soggetto fotografico, quasi a riprodurre l’oggetto come una scultura … Ti riferisci all’ultimo lavoro sui triodi di Marconi che ho presentato alla Galleria Stefano Forni, immagino. Lì, in effetti, il passaggio c’è stato, non puoi stare fuori dalla tecnologia, dai computers … quello che ho fatto prima è stato quello di dare una “fine poetica” all’analogico, l’ho fatto uscire dal formato portandolo sui muri, ed è stata una bella cosa perché è diventato un vero e proprio affresco; però si sapeva già che era la fine dell’era dell’analogico, anche se io lo uso ancora, mi piace molto l’utilizzo del banco ottico ... L’avvento del digitale è stato un periodo che mi ha preso in pieno, sono stato uno dei primi a Bologna a prendere una macchina, costava allora 70 milioni di lire, feci un finanziamento con la Regione perché mi serviva per lavoro, quello con cui ci campo, che fa “pagnotta”… Il digitale mi ha permesso di fare tanta ricerca, tante cose: imparai il Photoshop 2, con cui feci le prime elaborazioni. Però anche a quello ho dato un “limite”, anche la foto digitale, a un certo punto, non mi piaceva più tanto manipolarla, alla fine vedo che adesso certe fotografie digitali sembrano delle illustrazioni. A me, invece, quest’effetto non piace. Anche nell’ultimo lavoro in digitale, dopo lo scatto non gli ho fatto niente. Curo luci e dettagli in ripresa, ho l’abitudine di non manipolare mai! E’ un’abitudine che mi porta a curare il soggetto sul set, lo incollo, lo pulisco, lo ritocco ma dopo lo scatto non ho la consuetudine di riprenderlo in mano, mai. Certo ci scappa il peletto, il puntino …. Ma di prassi cerco di non ritoccarlo. D: E’ forse vero, però, che se c’è il minimo difetto, per così dire, forse quello rappresenta l’elemento caratterizzante … Si, infatti, ci sono delle foto in cui si vede un piccolo bozzo, e quello l’ho lasciato, mi è scappato in ripresa e poi potevo toglierlo, ma l’ho lasciato … D: E’ rimasto come l’elemento distintivo … Infatti, e l’ho voluto così!

Serie Triodi dalla mostra alla Galleria Stefano Forni, 'L'Hardware Ritrovato', stampa fotografica Lambda 80x80, #4 stampa fotografica al pigmento su cartoncino











Courtesy Galleria Stefano Forni


D: In effetti, ritengo che la fotografia, proprio per l’utilizzo del mezzo che ti separa dall’oggetto che è risultato del lavoro, è molto più difficile che non altre forme espressive come la pittura o la scultura, c’è il distacco dal prodotto finale. Tu che ne pensi? Io penso che la fotografia è un mestiere, aveva una sua alchimia in camera oscura, i fotografi stessi non ti dicevano nulla, io ho dovuto fare gavetta negli studi per imparare i segreti… D: Quando ti sei reso conto che volevi fare il fotografo? Guarda, volevo fare il musicista poi mi sono reso conto che volevo fare fotografia, ho cominciato a lavorare quando facevo fughino da scuola ed andavo da Serrapica, -(ndr. Studio Serrapica, via Petronio Vecchio Bologna )– facevamo le foto e mi portava con sé a Milano a fare i servizi; oppure utilizzavo la camera oscura che avevo in casa, ho sempre avuto la passione ... D: Sei sempre comunque stato assecondato in famiglia? Insomma, mica tanto, perché con gli acidi e i viraggi facevo molta puzza in casa e soprattutto mia mamma si arrabbiava, anche perché sapeva che era dura e aveva ragione … D: Adesso è forse più dura, c’è una concorrenza spietata … Si, oggi è dura anche perché c’è di tutto, ‘tutti fanno tutto’: il grafico che fa il fotografo, il fotografo che fa il grafico, c’è un gran miscuglio … D: E tu come lo vivi il rapporto con l’ambiente artistico, dove ti sposti per tuo lavoro e qui a Bologna dove risiedi? Sei sempre stimolato, interessato? Io vado sempre a vedere mostre, cerco di partecipare alle iniziative che m’interessano, ma preferisco stare in studio, fare esperimenti, fare ricerca, anche perché ho dei tempi lunghi … D: E la tua prossima mostra dove e quando sarà? Purtroppo per il Covid, ho saputo che la mostra di aprile da STEFANO FORNI è stata rinviata … Sì, quello che dovevo presentare è un vecchio lavoro, un servizio che avevo fatto con Freak Antony, erano delle foto che gli avevo fatto per un libro, “Badilate di cultura”, e volevo fare questa mostra con queste immagini dedicate a lui, perché era stato per me un caro amico e volevo in qualche modo ricordarlo. Per l’occasione avevo sentito anche la figlia, è stata molto contenta, ed era una cosa che tenevo molto a realizzare. Poi, invece, si è bloccato tutto … D: E quindi a quando l’hai rinviata? Non lo so esattamente, probabilmente il prossimo anno per il compleanno di Roberto- (ndr. in arte Freak Antony) – che mi sembra sia il 16 aprile. D: Nel frattempo stai lavorando ad altro? Ora sto’ lavorando sempre con l’analogico, sto’ sperimentando la stampa su vari tipi di carta; purtroppo però sono lavori da cui ti allontani, non trovi il materiale adatto, le carte hanno poco argento, o esistono altri tipi di carte, come l’oriental, ma sono molto costose e delle prove che ho fatto, non sono stato tanto contento. Ma se lavori con il bianco e nero il digitale da risultati terribili, sembrano foto finte, l’analogico invece ti permette molto … D: quindi il tuo è un ritorno al bianco e nero? Io non l’ho mai abbandonato, l’analogico, la camera oscura, il banco ottico; perché con quello ci sono nato, non l’ho mai lasciato e anzi, le mie macchine fotografiche, i miei obiettivi, ce li ho tutti! Una domanda che mi incuriosisce farti per il soggetto di una tua opera che, mi pare, sia su tavola, “La Femme plus belle de l’Universe” : è il ritratto di tua mamma? Perché ho colto una somiglianza?! Quello è un lavoro che è nato quando ero a Niort, durante la mostra del Progetto Giovani a Bologna, ed io vinsi quel il progetto assieme a Luisa Lambri ed andammo assieme in Francia come fotografi. Poi lì c’erano rappresentanti delle varie discipline, pittori, scultori, musicisti ed è stata una bellissima esperienza perché lavoravamo tutti assieme in una sorta di officina dove io avevo la mia camera oscura. Avevo fatto questo concorso che era Femme plus belle de l’Universe, ed io realizzai questa bambolina che suscitò molto l’ira di Baccilieri – (ndr docente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna) – anche perché la stessa Luisa Lambri aveva fatto dei lavori sotto una scala. Il giorno dopo, infatti, uscì l’articolo che diceva “…photographes italiens inexistants” ! Questo lavoro l’ho fatto, in seguito, anche alla Galleria d’Arte Moderna a Bologna.


La scelta di Intervistare Alessandro Rivola in questo momento storico particolare che stiamo vivendo tutti, in quest’Italia che traballa d’incertezze e di preoccupazioni, grazie alle sue parole, al suo sapersi raccontare, è stata una sorprendente sferzata di entusiasmo e di voglia di riemergere. La sua profonda cultura e la sua raffinata visione della fotografia rappresentano un concreto esempio che di arte si può vivere e si può crescere, maturando nel sapere tecnico di questo mezzo espressivo l’interiorità creativa e poetica che rende il suo lavoro, il risultato di un’assoluta qualità stilistica e di grande spessore artistico. Un’infusione di coraggio la sua e allo stesso tempo di fiducia, forse è solo questione di crederci: è il momento propizio per ripensare e ripensarci alla luce delle nostre passioni, delle nostre affinità e dei nostri sogni, perché vivere la realtà non significa escludere la nostra natura e le nostre predisposizioni, ma dobbiamo trarre da queste la motivazione attraverso il pensiero critico, per contribuire con curiosità e attitudine a migliorare noi stessi ed il mondo in cui esistiamo. Ci siamo detti arrivederci a presto, con Alessandro, speriamo di poter rivedere quanto prima i suoi lavori, augurandoci che presto riaprirà anche il mondo dell’Arte e della cultura con nuovo slancio e il suo stesso entusiasmo. Anna Rubbini 7 giugno 2020

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