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Spazio Architettura

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Marta Copper Wall: una parete di rame. Installazione a Santa Marta, Venezia.

di  Vincenzo Casali

All’esterno la chiesa di Santa Marta affaccia verso un’area scoperta, che oggi è destinata a parcheggio, oltre la quale però si apre una meravigliosa vista della laguna con una luce che dura l’intera giornata, perché non ci sono ostacoli all’intero percorso del sole.

Come catturare quella luce? La chiesa ha piccolissime aperture, è un bellissimo volume compatto.

L’abbiamo fatto con l’aiuto di un necessario artificio tecnico: una presa di ricambio aria dell’impianto interno di condizionamento che il progettista degli impianti pensava di mascherare imitando una vera da pozzo, facendola finta e posizionandola più o meno davanti all’ingresso sul fianco. Abbiamo invece progettato un volume netto e preciso, una lastra che contiene il volume d’aria sufficiente al ricambio degli impianti.

Ho inteso quell’oggetto come una scultura – ma non l’ho certamente presentata come tale al cliente e alle autorità, che altrimenti l’avrebbero bocciata – un monolite che catturasse e riflettesse l’energia di quello spazio naturalmente preesistente all’attuale parcheggio. Un monolite come quello di 2001 Odissea nello Spazio, ma di rame lucente (la venice l’abbiamo comperata in Inghilterra con la consulenza di Morigi, una esperto di restauro di grandi sculture in bronzo) per mantenerlo arancione, come quando arriva in cantiere prima di iniziare ad ossidarsi.

 

L’intenzione della composizione raccoglie questi oggetti d’architettura in un insieme: la chiesa è posta (è progettata come se fosse) sopra ad un piedestallo, che la isola dall’indefinitezza del resto del contesto. Ha un volume talmente puro che sembra qualcosa di arrivato lì per ultimo, mentre è – al contrario – la più antica presenza: la chiesa di un convento ormai scomparso.

Il piedestallo è in trachite, la pietra delle pavimentazioni veneziane, ma tagliata a spigolo vivo: ciò che la rende diversa dai “masegni” che nei loro scalpellati lati arrotondati portano addosso i segni dei secoli.

Tra la parete di rame e quella della chiesa ho posizionato una panca in blocchi di trachite lunga complessivamente 20 metri: un’opera a terra che mostra a tutto tondo, e non solo attraverso la sua superficie, la natura di quella pietra. I blocchi hanno un 30% d’imperfezione, perché si legga la venatura del materiale nei punti in cui la geometria degli spigoli vivi lascia il passo alla natura.

Tra l’altra parete della chiesa e alcuni edifici che l’affiancano, perché ne fosse isolata ho costruito una parete lineare dritta come un colpo di fucile, in blocchi di cemento dipinti di nero. Questa parete nera incornicia, definisce e chiude il piedistallo di trachite e fa di questo insieme qualcosa di finalmente concluso.

 

Negli anni, lo spazio della chiesa ha subito molte variazioni: all’interno per l’uso che se ne fa di volta in volta. All’esterno per un comune vandalismo andato in crescendo.

La scultura in pietra è stata “naturalmente” scomposta da ragazzi che frequentano l’area, ed ha preso una forma imprevista e meno lineare. Il monolite è soggetto alle solite pratiche di graffito, che si sono sovrapposte ad un intervento di Maurizio Pellegrin (che ha punzonato i numeri del quadrato magico di Dürer sul lato verso la parete della chiesa) e che lo hanno quasi completamente coperto. Ma resta la sua presenza in rapporto alla luce: ogni volta che passo di là, il suo colore si accende ogni volta diverso.

 

Attraverso i vetri o quando il portone resta aperto e si attiva il rapporto di scambio tra interno ed esterno, i riflessi di quella parete colorano di diversi gradi di arancione la cavea dell’auditorium. E’ il mio personale omaggio a Vittorio de Feo: una luce che tocca dall’esterno la sua idea di architettura. Una presenza leggera e mutevole, che può raccogliere solo chi spende del tempo in quello spazio, perché lo sta usando, o perché vi spende una pausa ed ascolta risuonare le sue proprie sensazioni.

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