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PERCHÉ L’ALTA MODA HA ANCORA SENSO DI ESISTERE, ORA PIÙ CHE MAI

di Samuele De Marchi











L’alta moda è quella splendida diva del cinema del passato che, nonostante l’età e le rare apparizioni pubbliche fa ancora parlare di sé grazie al suo fascino e importanza, facendo da ispirazione per le nuove generazioni portandosi dietro ovunque vada storia, sguardi e applausi.

Nonostante il titolo di madre della moda e il fatto che chi si cimenta in questa solenne arte scriva un pezzetto di storia, spesso non gode dell’attenzione che merita, per motivi tristi e banali, rimanendo solo il primo capitolo noioso in un manuale sulla storia della moda: ma le sue ammaccature - proprio come quelle di un frutto già maturo - sono da attribuire a malincuore proprio alla moda, a un sistema di regole, innovazioni e mercati che sono finiti per collassare sulle sue stesse fondamenta, portando a un altro Bruto che pugnala Giulio Cesare. Fortunatamente, lo stesso processo è stato ed è in corso di riabilitazione, per recuperare la lucentezza immortale che le appartiene di diritto.

La haute couture, chiamandola con il suo nome di battesimo, ha una carta d’identità completa di data, luogo di nascita e genitore: il sarto inglese  trapiantato a Parigi Charles Frederick Worth apre la prima casa di alta moda della storia nel 1858, al numero sette di Rue de la Paix nella capitale francese. Nascono i primi abiti fatti meticolosamente a mano per una clientela importante, irraggiungibile, che portava per le strade il nome del primo fashion designer al mondo. La moda nata negli atelier dell’epoca era più simile ai vestiti delle principesse dei cartoni animati rispetto a quello che siamo abituati a vedere oggi; non solo erano impegnativi da costruire, ma data la mole di tessuto e le forme gonfie e rigidissime, diventava anche ardua l’azione di indossarli e mostrarli, per questo erano destinati a personalità di ranghi sociali in grado di poterli portare solamente per poco tempo e per poche occasioni, oltre ad essere gli unici a poterseli permettere. Non so dire se in ritardo o in modo lungimirante anticipando tempi ancora sconosciuti, dieci anni dopo nel 1868 nasce la Chambre Syndacale de la Haute Couture, con lo scopo di tutelare e istituire questa giovane arte appena nata stabilendo criteri da rispettare per essere nominati couturier; la protezione e influenza della burocrazia nelle prime luci del mattino di questa disciplina, oltre a deroghe al regolamento e sfortunate coincidenze renderanno la vita difficile a questo mestiere, nel corso degli anni però arricchendone fascino ed esclusività.

Come succede spesso dal momento di una grande innovazione in poi, nei primi anni successivi il rateo di crescita, sperimentazione e scoperta nel campo diventa immenso, e così inizia l’età dell’oro dell’alta moda; non solo Worth, ma saranno tanti i proto-stilisti ad apportare modifiche e modalità di presentazione e produzione degli abiti, tra cui nomi impossibili da ignorare ancora oggi: già nei primissimi anni del Novecento, Lady Duff-Gordon in arte Lucile, costruirà le prime passerelle nel suo show-room e accompagnerà la camminata delle indossatrici con la musica in varie località e parti del mondo, facendo così nascere le prime sfilate - la haute couture presentava solamente a porte chiuse e direttamente per i clienti - , intuendo le potenzialità mondiali della moda. 

L’immaginaria scorta burocratica all’alta moda si allargherà nel 1921 quando in Francia nacque la PAIS: L’”Association des Protection des Industries Artistiques Saisonnieres” si occuperà di scongiurare il plagio delle opere scattando fotograficamente l’identikit degli abiti da tutti i lati, portando moda e fotografia a diventare discipline che cercano assieme di ottenere riconoscimento artistico e regalandoci oggi i tanto cercati e rispettati archivi. 



Negli anni ’30 sarà la volta di uno dei nomi più noti della moda mondiale a imporre le sue innovazioni sia stilistiche che sociali, e che proprio per questo motivo darà vita a una grande rivalità con un altro nome di spessore: Mademoiselle Coco Chanel inizierà a portare sulle passerelle abiti asciutti, semplici in forme e colori - quasi sempre neri e monocromi - e facili da indossare per le donne che in quegli anni stavano vivendo le prime libertà e soddisfazioni sul piano lavorativo, e che quindi dovevano sentirsi libere di agire e muoversi nelle neometropoli dell’epoca. Fu proprio il suo abbigliamento “specializzato in cimiteri” a non piacere alla couturiére italiana Elsa Schiaparelli, che negli stessi anni della rivale francese produce abiti surrealisti e bizzarri a forma di cassettiera o con stampe di grandi aragoste dai colori sgargianti, tanto che è da attribuire alla stilista italiana la nascita del rosa shocking. La sua stravaganza diametralmente opposta a quella di Chanel le è valsa da quest’ultima la definizione di “artista che fa vestiti”, nonostante siano vere le sue collaborazioni e conoscenze con personalità importanti del mondo dell’arte contemporanea come Duchamp, Man Ray e Picasso.

Nel decennio successivo il mondo intero venne sconvolto dalla seconda guerra mondiale, che bruciò tutte le carte in tavola fino a quel momento sotto qualsiasi aspetto; e se la guerra e le sue crisi furono la ghigliottina, le nuove specifiche della camera sindacale nel 1945 sono state il boia che lascia la corda tagliando la testa alla haute couture. I criteri si fecero paradossalmente più stringenti, imponendo un tetto minimo di abiti, sarti - soprannominate le “petit mains”, le piccole mani - e passaggi nell’iter di produzione degli abiti, condizioni totalmente insostenibili da parte delle maison in un periodo di crisi come quello del dopoguerra. Molte maison di alta moda si trovarono in una situazione di crisi nera, mentre altre non solo rimasero a galla o in uno stato vegetativo di mera sopravvivenza, ma fecero addirittura la storia: nel 1947 Christian Dior, dopo aver fondato la sua maison l’anno prima, esordì sulle passerelle con il suo “New Look” , così battezzato  da Carmel Snow, caporedattrice di Harper’s Bazaar, per la raffinatezza e pomposità con le quali mister Dior aveva ridato lustro all’alta moda dopo un periodo devastante come quello della guerra. Ci fu qualcun altro però, talmente impattante in quel momento da essere definito proprio dallo stesso Dior come “il maestro di tutti noi”: lo spagnolo Cristobal Balenciaga nello stesso periodo, sorprese pubblico e stampa con abiti dalle forme mai neanche pensate prima, caratterizzate da monocromia e volumi quasi alieni, ancora sorprendenti oggi dopo quasi un secolo di ogni sperimentazione possibile.

É importante e malinconico notare però, che nonostante gli alti fossero davvero alti, i bassi erano abissali e disperati: dal dopoguerra al 1970 le case di alta moda passarono da 106 ad appena diciannove - vedendo sconfitto anche Thierry Mugler, uno tra i couturier più spettacolari -, diventando una vera e propria specie in via d’estinzione. L’alta moda iniziò ad essere solamente facciata, più simile a un hobby costoso che a una disciplina artistica, assumendo anche la natura di prassi vecchia e poco pratica ai fini della moda mondiale dagli anni Sessanta con la nascita del pret-à-porter. 

Altresì detto “ready to wear”, questo nuovo capitolo si impose nel panorama della moda e lo rivoluzionò talmente nel profondo che è ciò che viviamo ora e vivremo probabilmente per sempre; è caratterizzato nella sua filosofia da una produzione di abbigliamento su larga scala grazie ai mezzi e le tecnologie fornite dall’industrializzazione - anch’essa inarrestabile - destinato ad un pubblico sempre più grande. Ciò si unisce alle metamorfosi delle tendenze nella moda, che ciclicamente e ininterrottamente impone un ricambio di stili e forme. È questo processo in continua evoluzione che mutò radicalmente il modo di disegnare, creare, portare e concepire l’abbigliamento a causa delle masse e delle industrie. È importante precisare però che quest’ultima causa deriva proprio dalle condizioni interne del sistema moda e in realtà da quella che è la sua natura più primitiva, ossia un legame indissolubile con il cambiamento delle masse. Tutte queste situazioni  favorirono “l’eutanasia” dell’alta moda a favore di altri tipi di prodotti e mercati. La crescita di questi elementi raggiunse livelli mai visti prima, modificando le abitudini di consumo e i gusti della popolazione mondiale. La haute couture è certamente la manifestazione vestimentaria di tecniche artigianali sopraffine e irreplicabili e illimitata libertà creativa, ma dato che gli abiti in sé sono totalmente inadatti al mercato dalla metà del Novecento ad oggi, lo scopo rimane solamente quello di fare da vetrina alle maison. Ma dopo il cambio di priorità da parte del pubblico, il senso dell’alta moda si sopisce piano piano.



Come ho anticipato inizialmente, c'è un graditissimo lieto fine. La haute couture sta riuscendo a fare dei suoi punti deboli le sue virtù più grandi, e  ce l’ha fatta ancora ad essere specchio dei cambiamenti delle società e delle sue sensibilizzazioni: lo dimostra la posizione in prima linea durante la pandemia di Covid-19, diventando da subito digitale mettendo da parte il tradizionalismo, il conservatorismo e tutti gli altri appellativi da antiquariato che vengono usati per descrivere l’alta moda. 

Le decine di migliaia di ore per creare un abito non sono più viste come inadatte alla velocità e frenesia del commercio di massa ma sono la prova della qualità del prodotto e del lavoro, così come lo è la ricerca in tessuti, materiali e tecniche possibile solamente in un campo ristretto e senza limiti come la haute couture. Stessa libertà anche per la complessità concettuale e artistica del tema della collezione e dello show allestito per raccontarla, spesso e volentieri ricercata e necessaria di studi - o quantomeno letture - per essere capita. L’assenza di confini creativi e avere la forza lavoro dei migliori artigiani del mondo nel settore, porta le maison a non dover essere legate a nessuna tendenza in fatto di design e nessun limite in termini di sperimentazione, mettendo insieme così prodotti e sfilate altamente spettacolari. Tra le menzioni più degne dell’ultimo periodo la collezione haute couture 2024 di Maison Margiela sotto la direzione creativa di John Galliano: una Parigi vittoriana e cupa fa sfilare corpi decadenti e simili a bambole con vestiti strappati e consunti in una performance inquietante, data dal traballante e sconvolto incedere di reietti e sex workers disperate. Questa è una metropoli che ignora i veri protagonisti della realtà e sono proprio quelli che lo stilista ha voluto rappresentare, resi possibili proprio dall’infinità possibilità di cura che l’alta moda garantisce. 

Anche le regole e burocrazia che l’hanno affossata ora sono un vanto per chi riesce a completare e presentare una collezione, recuperando ulteriormente sotto questo punto di vista il prestigio del passato, entrando a far parte delle maison che “ce l’hanno fatta”.

Si sta ritornando piano piano a capire che la haute couture e la moda di massa non sono in competizione tra di loro, non è l’allievo che supera il maestro, ma sono due discipline diverse, a tratti opposte nel modo di esprimersi, comunicare e interagire con il pubblico. In un certo senso è impossibile non apprezzare la haute couture per quello che racconta e per come lo racconta, lontana dai mercati, dalle polemiche, problematiche e provocazioni della moda supersonica di oggi; un momento sereno, che trova ancora più leggerezza quando ci si accorge che la sua unicità ed esclusività è fondamentalmente fine a sé stessa, non potendo fare altro che rimanere sbalorditi senza cercare freneticamente alternative a basso costo dei vestiti presentati. L’alta moda è sostanzialmente quello che la moda di massa non sarà mai sotto qualsiasi punto di vista, sempre un passo avanti grazie alla sua libertà, ponendosi nel vocabolario della moda, come sinonimo di sogno. Lunga e prosperosa vita all’alta moda.


3 Ottobre 2024, Samuele De Marchi



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