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ARTE

 

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La paura fa ’90... ancora. " -  Quinto capitolo 

di Santolo De Luca

Santolo De Luca - Fotoritratto di Iaia Gagliani

L’attesa presenza di Santolo De Luca su aARTic definisce uno sguardo sull’arte contemporanea, ed in particolare sulla pittura, vista attraverso i suoi occhi e le sue opere. Il suo intervento si svilupperà attraverso più capitoli, analizzando la contemporaneità scandita dagli eventi che negli ultimi venticinque anni hanno segnato

la nostra storia e le nostre emozioni.

A partire dagli anni ’90, periodo in cui la corrente  

“medialista”  lo vede protagonista e  maggior esponente,  l’Artista ci disegna la sua opera attraverso gli accadimenti sociali, politici e culturali che hanno segnato il suo percorso stilistico e concettuale.  

Le parole per Santolo De Luca hanno un valore assoluto,  sono parte essenziale dell’opera, sono definizione,

gioco, suggestione, divertita ironia; sono il cuore pulsante della figurazione, sono opera stessa.

Ed è con grande attenzione che dobbiamo decifrare questa sua incisiva e pittorica dialettica.       A.R.

...Giuro che non lo avevo previsto…, nonostante il titolo profetico di questa mia lunga riflessione su gli anni ’90 e su quanto in quegli anni si sia generato in termini di mutazioni, con le loro relative conseguenze conclamatesi poi negli anni 2000 fino a tutt’oggi ancora. Mi riferisco a quella paura citata, che mai avrei potuto immaginare si fosse palesata con un così repentino tempismo rispetto al monito presagio e che per giunta si presenta sotto l’impercettibile forma di un virus, identificato scientificamente come Covid-19 o più genericamente Corona Virus, minaccioso, con tutto il suo potenziale contagioso e mortale. Attraverso varie consulenze medico/scientifiche e l’esperienza di qualche mese fa avuta in Cina, il governo politico del nostro paese ha deciso per un lockdown … : tutto chiuso! Bisogna isolare il Virus isolandosi, si apprende da un’ordinanza governativa e da più voci che dicono, gridano, sussurrano, impongono: “STAI A CASA”.

Mi ritrovo sopraffatto da un irrequieta incredulità che mi spinge a uscire dal mio studio per scappare da questa sorta di sceneggiatura realistica da scena de “La guerra dei mondi” (film del 1953 diretto da Byron Haskin, ispirato all'omonimo romanzo di H.G. Wells) e a mettermi in macchina per fare un giro, giusto per controllare che là fuori sia tutto vero. Ma paradossalmente da un momento all’altro mi ritrovo a passare da un film a un quadro. Mentre poco fa nel mio studio, come nello storico film, ero attaccato non solo alla radio ma a tutti i media di cui dispongo alla ricerca di notizie di conferma o di conforto, mi ritrovo all’improvviso con amarezza a constatare che è tutto vero, sono tutti chiusi, e mi accorgo di ritrovarmi inutilmente a vagare per lo spazio urbano come una delle tante barchette di carta di un mio quadro: “Senza meta/fisica” (1993), con la sorpresa tra l’altro di verificare di non essere l’unico uscito a controllare, c’è anche qualcun altro, ma in divisa. Dissuaso e rassegnato rientro pensando che in solitudine non è possibile, è anzi insensato ribellarsi a questa che mi arriva come un’imposizione politica, così come quando da ragazzo mi ribellavo non accettando quelle familiari o quelle didattiche verso le quali sono stato sempre un po’ insofferente.

Santolo De Luca - Senza Meta Fisica.jpg

"Senza Meta /Fisica", '93 Santolo De Luca

Come mi è accaduto già altre volte nella vita, non mi resta altro che affidarmi a un opportuno training autogeno per decidere e pensare che quello di isolarmi sotto forma di vera e totale clausura, fosse una mia cosciente e consapevole scelta, e che tra l’altro questo è quello che resta da fare a molti se non a tutti. Questo non mi fa sentire certo un eroe che si sacrifica …, mi fa sentire comunque culturalmente libero di pensare e credere che sia stata una mia cosciente decisione intellettuale, scientifica, sociale …, quello che spero sia sempre possibile fare democraticamente e coscientemente ad ognuno di noi.

Mentre là fuori dilaga quella che si è in un primo momento temuta come epidemia e che adesso si ridefinisce in pandemia, nel suo dilagare, intanto, si è trasformata in pandemonio:… dai microfoni dei media arrivano raffiche di parole da tutte le direzioni, politiche, sociali, scientifiche e soprattutto economiche. Spudoratamente i media non tralasciano i numeri dei mercati della borsa che si confondono, avvilendoli, con quelli delle tante vittime cadute sul vero fronte che è quello degli ospedali, di questa che ormai con un termine mai così tanto abusato chiamano guerra. Penso che se fosse stata una vera guerra si sarebbero dovute bombardare prima le borse. Ma guarda caso, riflettendoci, con dispiacere e per ironia della malasorte la borsa italiana resta comunque “La borsa di Milano” (1998), la città italiana che purtroppo fino ad ora ha subito il numero maggiore di vittime.

Santolo De Luca - La Borsa di Milano.jpg

"La Borsa di Milano", '98  Santolo De Luca

Come schegge impazzite, la miriade di informazioni ormai in varie lingue del mondo, poiché a questo punto il contagio non sta risparmiando nessun paese, mi raggiungono inesorabilmente per quanto siamo esposti di fronte ai media, ad una inevitabile teleinfezione, verso la quale non c’è nessun dispositivo di sicurezza che tenga. Vengo colpito non tanto per i prevedibili toni seri, ma soprattutto per la contraddittorietà scientifica, la discordanza politica, la preveggenza apocalittica di probabili esperti di finanza che almeno qualche volta, fossero riusciti a prevedere un crollo delle borse, mai! Certo, che ne risentirà fortemente l’economia, che è un’altra cosa dalla finanza. La finanza è fatta dai numeri, l’economia è fatta dagli uomini. Da quegli uomini e quelle donne che da sempre hanno contribuito col loro fare, col loro pensare, con il loro agire, alla costruzione della storia dell’uomo, al progredire dell’intelletto umano, alla tutela sociale e culturale dei loro figli e dunque del loro prossimo. Persone reali di cui è fatta l’umanità che qualora come in questo momento dovessero subire una minaccia sia essa biologica, chimica, ecologica piuttosto che economica non tralasciano mai la grande arma della solidarietà, come si apprende si sia innescata fortunatamente anche dalle pochissime sporadiche notizie sull’arte che riportano di raccolte di proventi da parte di una delle varie Case D’asta del mondo, attraverso la vendita di opere di artisti. Come ebbi occasione di fare da parte mia insieme ad alcuni altri artisti italiani coordinati dalla riconosciuta sensibilità di critico d’arte e curatore, Alice Rubbini, devolvendo un’opera di solidarietà al Museo Benaki di Atene attraverso una mostra dal titolo evocativo di “Siamo Tutti Greci” nel 2013, momento in cui la Grecia per altre ragioni sprofondava in un Default economico di cui ancora oggi ne soffre le micidiali conseguenze. La solidarietà come atto di resistenza e esistenza.

La più umanamente degna e efficace azione di contrasto alla solitudine dello spirito, di chi la fa e di chi la riceve, prim’ancora che come sollievo alla fame e la sofferenza. Contro questa ormai conclamata solitudine in cui l’Italia, il nostro paese, si ritrova a dover fare i conti con un’Europa che si rivela sfacciatamente in tutta la sua unione esclusivamente contrattuale, avendo destinato all’oblio un certo sentimento comune, quel sentire rivolto l’uno all’altro e che si manifesta in desiderio di unirsi per amore. Per amore di un’idea che i nostri padri europei hanno ambito, coltivato e difeso contro le malvagie idee ma che con grande amarezza prendiamo atto, adesso, di aver votato una politica che viene espressa non dal gradimento più o meno condiviso attraverso il nostro democratico voto, ma piuttosto dettata da varie task force, anche mondiali, di centinaia di tecnici che mai si sarebbero preoccupati di dover esprimere una ragion di stato comune al di là di quello a cui sono più giustamente dediti, avendo studiato per questo e per cui chiaramente lavorano: gli interessi privati.

Gli stessi tecnici che occupano, senza ritegno ad ogni ora, spazi e tempi mediatici introdotti da altrettanti tecnici del giornalismo aziendalista che imperversano nelle loro enfatiche e imbarazzanti presentazioni di scienziati tra cui molti di loro, nella migliore delle ipotesi, non sono andati al di là dello studio terapeutico e casistico, circoscritto all’ambito ospedaliero che eccellentemente dirigono. Ma lo scienziato sarebbe un’altra cosa, sarebbe dedito a conquistarlo il tempo, più che occuparlo, sarebbe intento ad avanzare nell’infinito spazio di ricerca che si ritrova davanti, proiettato in quella che si definisce scoperta, altro che lo studio statistico di una terapia! Mi piace pensare alla lettera che nel 1938, Albert Einstein, lascia in custodia alla figlia Lieserl pregandola di non svelarla fin quando l’umanità non fosse pronta a comprendere come fosse possibile che un Genio così dedito alla materia fisica fosse arrivato a tale deduzione, del tutto inaspettata soprattutto da parte del mondo della scienza di allora, e purtroppo ancora nel 1981 quando fu resa pubblica. Lettera solo attribuita si dice, io dico invece che dovrebbe essere attribuita a qualunque scienziato degno di questa alta definizione e considerazione.

Dall’alta definizione all’altra definizione il passo è breve ma l’equivoco è ampio. Come confondere lo schermo video con il quadro.

Si presenta su gli schermi e le pagine di taluni media una vera e propria apologia della democrazia, una sorta di populismo liberale per cui ognuno non è qualcuno ma è qualcosa, una categoria, un settore, un’imbarazzante commedia dell’arte in cui ogni maschera impone nient’altro che il proprio primato regionalistico sprezzante dell’importanza delle altre maschere senza le quali non si potrebbe mettere sù la commedia e dunque il botteghino. Dopo diverse settimane in cui mi ritrovo chiuso tra i miei quadri e in questo traffico impazzito di parole, mi accorgo che la parola “Cultura” è la meno captata dal mio interesse per le notizie, quella meno pronunciata ma anche la meno scritta e di conseguenza ancor meno la parola “Arte”, quella visiva. Tranne che per mostre virtuali di Arte storica le cui diffusissime immagini, sia in video che in foto, ormai troviamo riprodotte anche su calendari che non avresti mai il coraggio di appendere neanche in garage, e la dolorosa notizia della scomparsa per Corona Virus del teorico dell’Arte Povera Germano Celant, o sporadicamente qualche altro caso in cui la rivista ArtTribune si chiede e chiede appunto a qualche curatore suo corrispondente: “che fine hanno fatto i curatori nella pandemia?”. Implicitamente rivolgendosi a i curatori di mostre e non ai “curatori d’Arte”, che in questo caso sarebbero i critici d’Arte, c’è da distinguere, come distintamente si leggerebbe in un’intestazione tecnicamente colta: “critico d’arte e curatore”. E’ evidente che il termine generico di curatore è una di quelle mutazioni di ruolo e indirizzo, tra le altre che ci sono state, sia chiaro, anche in termini involutivi e che già in altre occasioni ho avuto modo di affrontare criticamente a proposito dei mutamenti verificatisi negli anni ’90 nel “settore” dell’Arte.

Inevitabilmente, più che altro perché ormai ci arriva anche dalle notizie sull’oroscopo, vengo colto ancora dalle reminiscenze della notizia riguardo una banana che oltre cinque mesi fa, si dice sia stata venduta nell’ambito di ArtMiami, la fiera internazionale d’Arte che si tiene in Florida, che tra l’altro nell’ultima edizione ha dedicato all’interno della Art Week una mostra all’immagine della marijuana nell’Arte Contemporanea curata da Nicholas Corniloff, in cui oltretutto sono stato invitato con una mia opera del 1996 “ Coltivare l’Idea”.

Coltivare l'idea-Santolo De Luca (3).jpg

"Coltivare l'idea", '99  Santolo De Luca

Si parla di una banana come di un’opera che, se opera è: è opera della natura. Si pensa a una banana come stimolo provocatorio rivolto alla curiosità del pubblico dell’Arte come fosse quella di un primate, non a caso si dice: “curioso come una scimmia”. La curiosità, non l’interesse. La curiosità è una cosa e l’interesse è un’altra.

Diciamo quindi che l’interesse è una cosa più ardua da suscitare culturalmente in un pubblico colto, appunto, e che non certo per il virus, sono anni ormai che ha preso le distanze dall’Arte, dalle gallerie, dai musei di contemporanea e le relative riviste propagandistiche. Perché proprio in quanto colto è nauseato dall’essere canzonato e seppellito dalla derisoria risata di Ubu Re (opera teatrale di Alfred Jarry, considerata un'anticipazione del movimento surrealista e del teatro dell'assurdo), e che è altrettanto definitivamente indisposto a leggere e sentirsi dire davanti all’articolazione o alla banalizzazione di un concetto, che: “…nell’opera d’Arte contemporanea ormai l’importante è l’idea”. Senza rendersi conto che è ancora la stessa risposta che dopo più di cinquant’anni è stata ormai compresa, condivisa e digerita dal dibattito culturale, anche a giudicare dalle ormai storiche collezioni d’arte concettuale. Mi raccontava Getulio Alviani che in un incontro con G. Panza di Biumo, lui gli rispose: “...se l’importante fosse l’idea io avrei la casa vuota e brutta...”.

Oggi, davanti ad una qualunque “banana”, al di là di certe sommarie analisi sociologiche, qualunque altro approccio, eticamente, piuttosto che esteticamente critico, tralascia di affrontare il resto gli aspetti fondanti di un’opera d’Arte, andando a mortificare, appunto, la sensibile capacità di comprendere di un pubblico inevitabilmente perso.

Ricordo quando da studente di liceo, in una mostra personale di Joseph Beuys alla Galleria Lucio Amelio di Napoli, mi ritrovai ad assistere -davanti a una teca di vetro trasparente che sul fondo aveva uno spesso strato di polvere di zolfo cosparso come sabbia in un acquario, sul quale erano appoggiate alcune arance- alla domanda che un collezionista, non potendola fare all’artista che parlava solo in tedesco, rivolse al gallerista, chiedendogli cosa volesse dire Beuys con quell’opera. Il gallerista Amelio gli rispose in modo insoddisfacente e vacuo, almeno a giudicare dall’espressione dell’interlocutore, che avendo evitato una risposta in tedesco e sperando in una in italiano, purtroppo se la ritrovò, anche se più comprensibile, in francese: “...pour faire parler!”. Per far parlare! Che è anche l’obiettivo numero uno di qualsiasi operazione di marketing travestita talvolta da notizia di cronaca, altra volta da notizia di gossip, altre volte citata a sproposito considerato il contesto, dal cronista di turno di qualsiasi sport, se non addirittura all’interno di notizie meteo, farmacie di turno e rivendite aperte di frutta esotica. Ecco che ti arriva la banana di Maurizio Cattellan, il top di gamma dei prodotti dell’imprenditoria dell’Arte italiana uno dei maestri italiani del marketing pubblicitario e del linguaggio mediatico. Non a caso il critico - e curatore - d’Arte, studioso e teorico del “Medialismo” Gabriele Perretta (Politi Editore 1993) lo pone tra i protagonisti di uno dei due versanti che configurano il movimento più rappresentativo degli anni ’90 e che a guardarsi in giro è tutt’ora ancora in “movimento”, considerato il persistere unisono degli svariati linguaggi che già in quegli anni si accomunarono in un unico contenuto teorico, anche se, come dicevo, fatto da due componenti, come due metà di una cosa: un versante come espressione delle metodiche della comunicazione mediologica, definito Medialismo Analitico, e l’altro versante rivolto alla visione media/fisica di immagini attraverso un indifferenziato uso espressivo dello strumento mediatico, che si definisce in “Pittura Mediale”. Ragion per cui, in quel periodo, spesso si ritrovava un mio quadro a fianco di un’installazione di Cattellan.

Con l’avvento del Medialismo, alla fine del ventesimo secolo, si assistette alle prime mostre in Italia in cui la pittura, senza nessuna remora, veniva accolta ad esporsi e ad essere esposta a fianco di un opera concettuale e viceversa. La pittura visibile fu compresa nel suo invisibile concettualismo. Cosa che adesso sembra democraticamente logica, eppure c’è da dire e da sapere che nei decenni precedenti agli anni ’90, la distinzione era ben differenziata tra mostre concettuali e mostre di pittura e questo settorialmente accadeva anche sul fronte della proposta. C’erano gallerie che proponevano, quasi ideologicamente, esclusivamente mostre concettuali, e gallerie che reputavano il linguaggio concettuale una tendenza di moda americana, dove nell’ipotesi più estrema, una mostra di Alberto Burri o di Lucio Fontana veniva proposta come una mostra di pittura solo perché usavano ancora la tela bidimensionale. Stessa cosa fino ancora ai primi anni ‘80 la riscontravi tra una regione e l’altra. Per esempio, mi raccontava Aldo Mondino, ma anche Salvo che, lui siciliano, per l’esperienza avuta nell’Arte Povera negli anni ’70, si ritrovava in Piemonte perché lì, in quegli anni in Italia, erano concentrate il maggior numero di gallerie “concettuali”, e che la più alta espressione considerata di pittura contemporanea rivelata dal territorio era ancora identificata in Osvaldo Licini. Che resta un grande pittore, ma lo era dall’inizio del ‘900, mentre Roma già negli anni ’60 affermava la pittura della Pop Art italiana attraverso un maggior numero di gallerie che proponevano, appunto, esclusivamente la pittura. Ma parlare di regionalismo dell’Arte dei decenni passati mi riporta purtroppo al doloroso regionalismo politico economico e soprattutto sanitario che si sta vivendo là fuori, all’angoscia per notizie e fake news che mi assalgono qua dentro, che quasi mi verrebbe da chiudere questo mio altro intervento di riflessioni su gli anni ’90 con uno di quegli emoticon con le lacrime… Poi se piange o se ride non ha importanza. Fate voi. 

Maggio 2020                                                                                                                                                        ...continua...               

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