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Letteratura

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La lettura, e il suo ‘gioco’

Recensione al volume di Gerard Unger, Il gioco della lettura (Roma, Stampa Alternativa & Graffiti, 2006. Titolo originale: Terwijl je leest, De Buitenkant, Amsterdam, 2006. Trad. it. di Alessandro Colizzi).

di Martina Pazzi

Stanley Morison, nel 1936, sosteneva che l’attività tipografica, alla stregua dell’architettura, fosse ‘un’arte di servizio’. E che il tipografo dovesse essere ortodosso, in quanto profondo conoscitore dei materiali e dell’utilizzo che ne veniva fatto. Esperienza e tradizione. Ma anche ‘vista’. Il nostro senso della vista partecipa allo spazio estetico del sapere, all’organizzazione dei segni, alla perdita di opacità della parola, che diventa ‘trasparente’, quand’è contemporanea allo sguardo. Questi segni rimarrebbero delle pure tracce, se non fossero attivati dal lettore. Mediante un leggere letterale, e un guardare. Daniele Barbieri afferma che ‘leggere’ e ‘guardare’ siano le principali attività cognitive di cui è protagonista il nostro senso della vista: «si legge una materia – scrive – che è stata organizzata ritmicamente da qualcun altro; si guarda una materia che, come il mondo reale che si presenta alla nostra percezione, aspetta che siamo noi a darle organizzazione ritmica». Eppure, si può leggere e al contempo guardare. Vi è una contaminazione. Come nel caso delle calligrafie, in cui il concetto di leggibilità viene sacrificato a quello della guardabilità, potenziata, quest’ultima, dall’espressività della scrittura e dalle componenti relative, appunto, al guardare. Sottraendo attenzione al puro leggere. Ma la parola, per continuare ad essere tale, deve essere riconoscibile, e quindi leggibile. È dunque opportuno, come suggeriva Morison, minimizzare quegli aspetti che richiamerebbero in gioco un guardare, là dove si dovrebbe unicamente leggere. Caratteri facilmente riconoscibili, connotati dalla minima variazione possibile. E senza fermarsi di tanto in tanto per ammirare l’eleganza della pagina, senza spezzarne il ritmo. Come si fa, allora, a stabilire se una font di caratteri è più leggibile rispetto ad altre? Qual è il confine (se mai esiste un confine) fra leggibilità ed espressività? Quando il lettore volge la sua attenzione alla lettura, il carattere ideale scompare dalla percezione. Va soltanto letto.

 

E, da leggere (da leggere, ma anche da guardare, nell’architettura dei venti paragrafi in cui si suddivide – ‘Lettere che spariscono’ e ‘Gli occhi del lettore’, alcuni titoli –, negli occhielli e nelle immagini che invitano ad una lettura simultanea e non lineare) è un gustosissimo libro di Gerard Unger, tradotto in italiano, con il titolo ‘Il gioco della lettura’, ed editato da Stampa Alternativa & Graffiti nel 2006. La leggibilità, afferma Unger, è relazionata alla riconoscibilità delle lettere. Ma le lettere possono essere lette senza essere viste? Il lettore può avere un rapporto inconsapevole con i caratteri che si depositano sulla pagina? La forma delle lettere sembra essere impressa nella memoria del lettore, come un modello che si dà per scontato, altrimenti non lo si riconoscerebbe. Ci sono due ‘scuole di pensiero’, in ambito grafico, a riguardo: una che dice che la leggibilità lasci poco margine di manovra, che la tipografia cambi lentamente e che sia soggetta a norme fisse; un’altra, che presume nel lettore una sorta di capacità di adattamento, e che, pertanto, la tipografia possa essere riformata. Unger, a tal proposito, si chiede: «Com’è possibile che un libro, poniamo nel 1475, stampato e pubblicato a Venezia da Nicolas Jenson, contiene lettere la cui forma si discosta pochissimo dai caratteri odierni?». Cosa accade nel gioco della lettura, durante il riconoscimento delle lettere? Le lettere spariscono, si dissolvono, diventano invisibili. Un gioco da illusionista. Beatrice Warde, collaboratrice di Stanley Morison, parlando di ‘tipografia invisibile’, ha paragonato quest’ultima ad una finestra. Il lettore intende vedere la finestra o godersi piuttosto il panorama che si apre al di là di essa? Come una finestra poco vistosa che lascia libero il panorama, una pagina ‘calma’ veicola al meglio il contenuto di un testo. I grafici, senza frapporsi fra autore e lettore, devono restare sullo sfondo. Allora i caratteri si fanno invisibili, sono il più normale possibili, e vengono percepiti dalla fovea. Sulla base degli automatismi insiti nella lettura, che sono registrati sotto forma di engrammi, di connessioni neurologiche apprese e vengono attivati da stimoli sensoriali e da pensieri. Quando si legge, gli engrammi, costituiti da componenti di lettere quali punti e linee, rappresentano formulazioni note. Ne percepiamo solo una parte: la memoria si occupa di completarle, queste componenti. «Il modello per l’identificazione delle lettere – ci informa Unger – è probabilmente predisposto più per le loro combinazioni che non per lettere singole, perlomeno nei lettori esperti. Da studi sulla leggibilità deriva l’espressione effetto di superiorità della parola, secondo cui le lettere vengono riconosciute più velocemente nel contesto di una parola che isolatamente. Il modello non è costituito esclusivamente dai ricordi legati alle lettere viste più frequentemente, ma è assai flessibile così da permettere l’identificazione di forme divergenti o nuove. Queste ultime vengono identificate abbastanza velocemente in un testo breve, ma non appena si passa alla lettura automatica sembra avvenire una riduzione dei modelli di riconoscimento, per cui funzionano meglio le forme familiari». Al di là del riconoscimento delle forme grafiche tradizionali, comunque, un disegnatore di caratteri è impegnato in una doppia attività: quella di leggere le lettere e quella di guardarle. «C’è un momento in cui la percezione cosciente passa a uno scambio inconscio fra il testo e la mente (...). Vediamo il testo, lo guardiamo, cominciamo a leggere e allora il testo visibile sparisce, mentre si manifestano comprensione e significato (...). La fase della visione è in genere brevissima, e immediatamente, senza volerlo, ci troviamo a leggere». Elementi insoliti, ‘chiassosi’, una diversa organizzazione dei bianchi e dei neri, un’accumulazione non comune dei dettagli (volti a rendere le lettere inusuali), il ricorso a caratteri ritenuti ‘non familiari’ dai lettori fanno sì che la tipografia cessi di essere ‘invisibile’ e che la visione prenda il sopravvento sulla lettura.

«Ho sempre amato le nuvole, fra l’altro perché fanno spesso da sfondo al volo delle rondini, cui ho dedicato uno dei miei caratteri»: Unger è consapevole del fatto che questo carattere sia in grado di attardare anche solo minimamente quel processo cognitivo che permette al lettore, in quell’avvincente gioco che è la lettura, di associare al segno che vede e ammira (se mirar è sinonimo, non a caso, di guardare) il significato che gli corrisponde.

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