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ARTE

 

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“Leonardo: il Genio Universale a Roma”

 
La prima mostra permanente al mondo, che espone cinquanta macchine e ventidue riproduzioni dei dipinti più celebri di Leonardo da Vinci

di Martina Pazzi

“Come accade per quasi tutte le parole, nella latitudine

semantica della parola arte convivono oggi usi e significati databili a epoche diverse (...). La sua accezione più generica (...) – attività umana che si compie secondo regole dettate dallo studio e dall’esperienza – rimanda ai suoi significati premoderni, mentre la sua accezione estetica è piuttosto recente”. Dal riferimento primario del termine – si legge ancora sub vocem “Arte” curata da Stefano Velotti nel Dizionario di estetica editato nel 2005 da Carchia e D’Angelo per i tipi di Laterza – all’ambito dei mestieri, delle scienze e delle professioni – Platone definiva il sapere “un saper fare”, mentre Aristotele intendeva l’arte come “una disposizione produttiva accompagnata da ragione vera” – all’intellettualizzazione che della nozione stessa si operò nell’età di mezzo, fino all’elaborazione di una sua accezione estetica, in età rinascimentale, e all’affermazione di una sensibilità linguistica diversa – tanto che per Schlegel “non vi è arte che non sia per intrinseca necessità produttrice di bellezza e perciò bella” –, un concetto così complesso “rilancerebbe – per dirla con Velotti – il problema di individuare nuove aree dell’esperienza umana in cui le ineludibili condizioni di senso che contribuiscono a costruirlo – condizioni estetiche, ma non per questo artistiche – trovino il loro spazio di interrogazione e di riconoscimento”.

Interrogarsi e riconoscere. Individuare. Cimentarsi col genio, come sinonimo, fra gli altri, di “facoltà dell’originalità inventiva, che ha il suo spazio di manifestazione privilegiato nell’arte”, è difficilissimo, astruso. E tentare di arginarne la poliedricità entro parametri fissi lo è, forse, ancora di più. Specie se il genio rinascimentale ha reso manifesta questa sua originalità inventiva negli ambiti della pittura, dell’architettura, della scienza, rivoluzionando, di fatto, sia le arti figurative che la storia del pensiero scientifico. Perché per Leonardo da Vinci l’arte era persino “più bella della realtà, che con il tempo svanisce”: arte come pittura, ad esempio – e chi la biasima, “biasima la natura, perché le opere del pittore rappresentano le opere di essa natura” –; pittura che è, a sua volta, “una poesia che non si vede e non si sente”, il cui artefice, se “ritrae per pratica e giudizio d’occhio senza ragione, è come lo specchio, che in sé imita tutte le a sé contrapposte cose, senza cognizione d’esse”. La cognizione, infatti, per Leonardo risiedeva nella sapienza, che è “figlia dell’esperienza”. Una conoscenza empirica, quella esperibile all’interno delle cinque sale espositive che compongono il Museo Leonardo da Vinci Experience, una mostra permanente sul genio di Vinci, allestita, a partire dal mese di settembre, in via della Conciliazione a Roma. La novità apportata dall’itinerario museale che è stato tracciato è quella di allestire in un’unica esposizione cinquanta invenzioni del genio universale che ha segnato il passaggio dal Medioevo all’Età moderna a ventidue opere del maestro ricreate in pittura, quali fedeli riproduzioni dei dipinti più famosi, fra cui la riproduzione, a grandezza naturale, de L’ultima cena, consentendo ai visitatori una full-immersion all’interno di un’esperienza multimediale fra pittura, meccanica, proiezioni tematiche, ologrammi e audio didattici in cinque lingue diverse, dall’italiano all’inglese, dal francese al tedesco, allo spagnolo.

Un principio dicotomico, questo, che si origina dallo studio della produzione del maestro, dei suoi codici, delle tecniche e dei materiali utilizzati dall’artista, e che intende ricostruire con dovizia di particolari il percorso inventivo, meccanico, pittorico e culturale tout-court di Leonardo, le cui opere d’arte e i cui progetti celano, ancora oggi, una simbologia di non facile decifrazione. Cinque, le sale espositive, in cui tale connubio si oggettiva nella combinazione di macchine, costruite, a grandezza naturale, sulla base dello studio dei manoscritti scientifici – su tutti, il Codice Atlantico, oggi conservato in Biblioteca Ambrosiana, a Milano – e dei dipinti realizzati, rispettando le dimensioni degli originali dagli artisti della Bottega Artigiana Tifernate [vedi box], che partono dalla pictografia – tecnica brevettata da Stefano Lazzari nel 2000 che consiste nella riproduzione di modelli mediante il ricorso ai materiali naturali impiegati all’epoca della loro esecuzione ed il trasferimento di colori e immagini su supporto – per applicare, poi, le tecniche originarie. Macchine del volo, fra cui figura un prototipo di Deltaplano e la Vite Aerea, antenato dell’elica moderna, costruita in legno, tela di lino e filo di ferro, e riproduzione a grandezza naturale (525 x 240 cm) de L’ultima cena – il cenacolo vinciano dipinto a fresco da Leonardo nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie per volere di Ludovico il Moro fra il 1494 ed il 1497, e dichiarato, nel 1980, Patrimonio dell’Umanità – nella prima sala. “Alla destra di Gesù siede il Giovanni Battista o Maria Maddalena? Di chi è la mano che stringe un pugnale? Quale significato può assumere il gesto di San Pietro?”: vi sono una presenza criptata del femminismo sacro in quest’opera d’arte, l’identificazione della Maddalena col Santo Graal, come si legge ne Il codice da Vinci di Dan Brown?

Macchine militari e armi, invece, nella seconda sala: i progetti dei macchinari bellici – si pensi alla catapulta, alla bombarda, alla mitragliatrice a ventaglio –  contenuti nei codici vinciani sono alla base della ricostruzione operata in questa stanza della sede espositiva. Gioco di riflessi e fuochi prospettici nella terza sala, dedicata ad alcune delle intuizioni più geniali di Leonardo negli ambiti dell’ottica, della prospettiva e della museologia: il prospettografo ed il proiettore, ad esempio, la camera degli specchi – una cabina costituita da otto pareti a specchio che permette una visualizzazione a 360 gradi dell’oggetto riflesso – ed il flauto doppio, progettato dal maestro mettendo in essere i suoi studi sulla fisica del suono. I princìpi scandiscono l’itinerario museale della quarta sala del museo, che espone oggetti della vita quotidiana: la molla, la bicicletta – il cui progetto è stato rinvenuto solo nel 1966, a seguito della lettura di due carte incollate nel Codice Atlantico – la scavatrice, il guanto palmato, il salvagente, solo per citarne alcuni. Ventidue, le riproduzioni dei più famosi dipinti di Leonardo, fra affreschi, tavole, tele e carte, esposte nella galleria della quinta sala: si segnalano l’Annunciazione (216 x 97 cm), la Vergine delle Rocce (200 x 126 cm), la Dama con l’Ermellino (56 x 40,5 cm), la Gioconda (78 x 52,5 cm), tutte, fatta eccezione per il Cenacolo – l’affresco è realizzato con un impasto di calce spenta e sabbia, steso in un supporto di alluminio alveolare –, realizzate in scala 1:1, variando solo di ½ cm, secondo le direttive del MIBAC, ed eseguite con colori a tempera e ad olio, con inserzione di foglia oro e di foglia oro zecchino 24 kt e di cornici intagliate su legno massello e decorate a mano, secondo un procedimento che prevede la preparazione del supporto – la cui base è realizzata in legno vecchio con incollatura di pannelli e inserzione di traverse “a coda di rondine” funzionali a che la tavola non si incurvi – la gessatura della tavola – il naturale “gesso di Bologna” viene impastato “a bagno maria” per poi essere steso a pennello, secondo le modalità e le ricette tipiche quattrocentesche – l’acquisizione del dipinto, mediante riproduzione digitale ad alta risoluzione, il trasferimento di pigmenti di colore su pannello di legno, applicando la tecnica pictografica, la fase pittorica propriamente detta, mediante la tecnica a olio su tavola, provvedendo ad operare una stratificazione di pigmenti di colore oleosi, stesi con l’aggiunta di olio e lino cotto, ed, infine, la realizzazione, la decorazione e la doratura delle cornici in legno massello, gessate con gesso da doratori, trattate con bolo rosso francese e dorate con foglia d’oro. I dipinti di Leonardo, primi fra tutti i suoi ritratti, le tecniche da lui impiegate affinché si potesse mettere in moto l’illusione dell’occhio dell’effigiato che segue lo spettatore, sono presentati, così, su un altro piano: la copia del modello è pedissequa, perfettamente sovrapponibile – se non fosse per le misure, leggermente alterate –: la pittura come “poesia che non si vede e non si sente”. Il pathos, sì. E questa esperienza museale vuole ricrearlo. Una empatia totale con l’opera del genio, “più bella della realtà, che con il tempo svanisce”.

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