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Musica

L'intervista impossibile a Ezio Bosso

di Anna Rubbini

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Non sapere come cominciare a parlare di un’artista dice molto sulla percezione di sé che ha impresso sul pubblico ... E non parlo di un pubblico particolare, amatore o appassionato.

Parlare di Ezio Bosso come di un artista scomparso risulta difficile, non solo penoso per la giovane età della sua dipartita, ma soprattutto perché la sua genialità e il carisma che riusciva a trasmettere con umiltà e uno straordinario sorriso, così semplicemente come chi non si ritiene speciale bensì fortunato perché la musica lo aveva scelto … beh parlarne come di un ricordo è davvero rammaricante e ingiusto, lascia tanto dispiacere e un sentimento di contrarietà, di rimpianto e di rabbia per non essere riuscita nell’intento di intervistarlo e magari di ascoltarlo nel suo prossimo concerto.

In tempi di emergenza, dove tutto viene tenuto lontano e viene rinviato, questo mio sogno di tornare presto a Bologna, città che abbiamo avuto in comune per scelta di studi e di vita, svanisce in modo sterile e vacuo, nella certezza di un non ritorno, di un’opportunità realistica ma irrealizzabile, è troppo tardi.

Ma la curiosità sul professionista e l’uomo, sul martire e il prodigio, non sono venute meno, anzi. La curiosità si è fatta più insinuante e affascinata perché Ezio Bosso non era solo un grande compositore, ma era un musicista polistrumentista ed un artista colto per educazione, sotto ogni forma ed essenza, che fosse musicale, letteraria o figurativa. La provenienza da una famiglia operaia, mai celata, racchiude un mondo di orgoglio e riscatto proprio attraverso la cultura, come da sempre la sinistra proletaria si identificava per contrapposizione ai valori borghesi e materialisti, abbondanti di ricchezza ma poveri di moralità, come spesso lo abbiamo sentito raccontare nelle sue interviste.

Nella sua vita, gli studi e il  lavoro lo hanno portato in molti paesi, nei quali non ha completato solo la formazione e raggiunto traguardi esemplari della sua carriera, ma ne ha appreso i codici - conosceva ben cinque lingue, inglese, francese tedesco spagnolo e portoghese - nella volontà di carpire al di là della musica, la storia e la civiltà di un mondo mai solo palcoscenico ma ancor più modi di vivere e di essere, interessato allo scopo, alla ragione, per trarne fonte di ispirazione e potenziamento intellettuale.

L’orchestra era per lui composizione, l’intento nel dirigere i musicisti era non di competere, non di diventare primo della fila piuttosto che quinto, bensì di collaborare, di prendere parte ognuno con la sua peculiarità, stando al posto giusto per rendere l’esecuzione un risultato sublime e perfetto.

Lo abbiamo sentito dire che “la musica può diventare paradossale, senza diventare volgare” dando lezioni sui Carmine Burana, parlando dell’orchestra come di una società, come lo ‘stare insieme’ nella forma più pura di ciò che significa, è con-petizione, non sopraffazione, dunque, ma partecipazione. Ognuno, ogni elemento dal primo all’ultimo, dalla prima all’ultima fila, sosteneva il maestro che stesse al suo posto perché lì era l’unico nel quale riusciva a permettere all’unità di riuscire meglio.

L’orchestra rappresentava per Bosso la società ideale, in cui tutti sono fondamentali, il migliorarsi di ognuno è il migliorarsi di tutti e diventare un’unica cosa che si chiama mutualità, unione e cooperazione volte al migliore esito finale.

E se tutto è riconducibile alla politica, sosteneva Ezio, il pensiero di oggi è di primeggiare anziché partecipare, come invece avviene in un’orchestra, è di valere più dell’altro, e questo è un pregiudizio fatale.

Un pregiudizio che lo ha accompagnato tutta la vita e contro il quale ha sempre dovuto lottare, sin da  bambino perché era povero e un povero non può fare il direttore d’orchestra; e da adulto, dopo la malattia, perché il suo posto era “privilegio dell’handicap”, era lì perché guardavano le sue ruote, scelte apposta, provocatoriamente bellissime per la sua sedia, piuttosto perché la sua musica elevava lo spirito e faceva toccare con un dito la luna …

La ribellione verso i pregiudizi diventava una pratica, egli sosteneva infatti di agire per “atti di gentilezza militante” che eliminano di per sé il militare: gli atti di gentilezza che consistevano nell’aprirsi alla musica e sorridere nel suo farsi erano considerati già atti rivoluzionari; chi avesse pensato e si fosse interrogato con curiosità attraverso il fortunato strumento della musica, già eseguiva per lui un atto rivoluzionario.

Ma non solo la musica interessava la sua entusiastica personalità, ed è una conferma per me che non lo vedeva esclusivamente come un musicista, più simile piuttosto ad un artista tormentato e affascinante, disarmante nella sua conoscenza dell’Arte in cui amava immergersi, per sua stessa ammissione, nei suoi viaggi a Londra e nel cui ambito aveva stabilito anche rapporti di stima e amicizia con artisti contemporanei.

Ancora una volta la sua provenienza familiare in qualche modo lo riscattava, l’Arte e la cultura tanto ricercata avrebbero salvato loro la sorte permettendo l’accesso alla bellezza attraverso la conoscenza.

Me lo vedevo, in effetti, per quel suo aspetto trendy e bohèmièn, immergersi nelle stanze della National Gallery davanti alla Vergine delle Rocce che tanto lo rapiva, o davanti alle opere della luce di Turner di cui diceva fosse un autore davanti al quale, la prima volta, ebbe la sindrome di Stendhal, svenne come folgorato davanti tanta bellezza. Un autore potente come Beethoven, sosteneva, che lo faceva impazzire pensando che andava a personalizzare le sue tele all’ultimo momento disegnando in un angolo un trenino a mo’ di firma …

Sin da piccolo Bosso cercava l’Arte come la musica: non avendo mai conosciuto il nonno inventava di essere il nipote di Calder, sognandolo talvolta come lo fosse stato davvero …

Come scrittore di musica amava l’Arte visiva, il segno, in particolare amava proprio Turner e Sol LeWitt, amava l’Arte perché lo faceva stare bene, perche gli regalava momenti di “felicità di cui si doveva godere senza mai accontentarsi”.

Intraprese operazioni benefiche che lo portarono ad associare, per meglio raggiungere lo scopo, la sua musica all’Arte di amici artisti– perché, diceva molto limpidamente, con la musica non si raccolgono fondi - sperimentando egli stesso action painting minimaliste.

Raccontava al pubblico, con molto orgoglio, di aver realizzato un’azione congiunta di musica e Arte, inventando un concerto ispirato a Turner e, durante l’esecuzione dei dieci brani, fece portare a termine dieci opere ad altrettanti artisti: dieci brani completamente diversi associati a dieci opere altrettanto diverse, per poetica, decorazione, incisività e forza figurativa, che alla fine furono messe all’asta realizzando l’obiettivo umanitario che la musica sola non avrebbe potuto.

La musica, che considerava una benedizione, gli tolse i dolori dell’infanzia e dell’adolescenza, convertendo nella sua breve vita la tristezza in bellezza, rappresentando per lui il divino nelle mani dell’uomo.

La vita, era da lui definita il mistero prima della rivelazione; nella tribolazione del quotidiano una sua frase ricorrente era che, nonostante tutto, aveva avuto una vita meravigliosa!

Nell’implacabile destino che lo ha segnato, per lui svegliarsi ogni giorno era aprire gli occhi sul “dopo”, quando non li avesse più aperti sarebbe stato per lui soltanto un altro dopo.

Il dopo che a me rimane è, mi ripeto, il rammarico di averlo conosciuto per fama e non per davvero, ma continuo ad elaborare tante domande che avrei voluto fargli, come “se fossi stato un animale cosa avresti voluto essere?...probabilmente un uccello; o se fossi stato un elemento cosa avresti voluto essere?...probabilmente vento …”

Ora che quel dopo è arrivato, troppo in anticipo per chiunque, sono certa che è nuvola di un cielo luminoso e stella che brilla accanto alla luna, che è onda immensa e forte come il mare, ma anche soffio leggero e appagato nel rumoroso silenzio che ci ha lasciato.

Arrivederci Ezio Bosso.

​

3 Maggio 2020

Ezio Bosso

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