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Intervista all'artista, grafico e designer Gabriele Verducci

di Martina Pazzi

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Da Keith Haring ad IcOn: il segno, saldato ad arte

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A Perugia, nella ex-chiesa di Santa Maria della Misericordia, la prima personale di

Gabriele Verducci, un artista, grafico e designer umbro, che con il filo di ferro elabora un proprio, peculiare alfabeto. Intessuto di loghi di società industriali ed icone della contemporaneità

Per Roland Barthes «ogni alfabeto è un bricolage». Fatto di segni che vengono attivati dal lettore. Ma c’è di più: nell’atto di lettura la comunicazione può passare per un rovescio. «Il corpo del lettore non è quello dello scriba: l’uno rivolge l’altro». Il lettore, allora, si pone dalla parte dello scrivente, risale dalla parola alla mano, al corpo, secondo una ripartizione delle funzioni che coinvolge mani e faccia, visione e gesto, sul binario di due vettorialità dissociate, il cui riconoscimento si fonda sull’essenza ripetitiva del segno. Poco importa se quell’alfabeto è realizzato con la penna, la matita o col filo di ferro, plasmato in un ductus che si increspa in sinuose silhouette, loghi di aziende e società industriali quali, ad esempio, l’Eni, le Assicurazioni Generali, Apple, ritratti di personaggi come Keith Haring, icone della contemporaneità o, ancora, strumenti mediatici come Twitter o Instagram.

Perché l’arte di Gabriele Verducci – artista umbro esordiente, progettista industriale, grafico, comunicatore, designer, ha progettato stand ed eventi, dalla Fiera di Rimini al Salone Internazionale del mobile di Milano, ha partecipato al Fuorisalone e ha fondato Desink, uno studio di progettazione che passa dall’architettura di interni al design industriale – si può situare, come scrive il critico d’arte Giorgio Bonomi, «nel filone dell’arte sociologica, cioè in quell’arte che prende ispirazione da cose e fatti sociali e che induce gli osservatori a conoscere, a pensare, a riflettere». Lo stesso artista afferma che «dietro simboli ammiccanti si nascondono ingiustizie sociali, disastri ambientali, sfruttamento e schiavitù. Il logotipo ci conquista e rasserena, la verità ci sfugge lasciandoci increduli. Sono loro i grandi mali del nostro secolo, capaci di manovrare le nostre coscienze in nome del profitto sconsiderato». Arte sociologica, dunque. Ma anche povera, concettuale, con ammiccamenti alla Pop Art e alla poesia visiva. A Gabriele Verducci, infatti, le etichette non intimoriscono. Non le vive come coercizioni definitorie. Le sue creazioni, pur ricorrendo sempre al medesimo materiale, il ferro grezzo, presentano varie modalità di saldatura e diverse finiture per la loro definizione, così come disparati sono i topic prescelti: dalle silhouette ai retroscena delle storie delle aziende, delle piattaforme-social. Tutti rispondenti ad una poetica rigorosamente uniforme, pur nella differenziazione esecutiva.

Una prima personale, inaugurata lo scorso 17 maggio in pieno centro a Perugia, nella ex-chiesa di Santa Maria della Misericordia, presentata da Giorgio Bonomi, racconta del percorso di questo giovane designer approdato all’arte visiva e del suo ‘segno’, in un continuo e fitto dialogo tra il piano dell’espressione e quello del contenuto, tra vuoti e pieni, chiari e scuri, dati, questi ultimi, dal gioco di luci ed ombre che la parete mette in essere con le opere a quella accostate.

Di queste creazioni, di primo acchito semplici, immediate, eppure complesse, debitrici di immagini prelevate dalla storia dell’arte, da Schiele a Matisse, parla Gabriele Verducci, che tutto deve al sapere tecnico e alla manualità disciplinata derivatigli dalla sua formazione come designer industriale.

 ‘Segno. Dai sogni ai retroscena’ è il titolo che hai dato alla tua prima mostra personale, patrocinata dalla Regione Umbria, dal Comune di Perugia e da Identità Perugia, presentata, il 17 maggio scorso, da Giorgio Bonomi e allestita, in pieno centro a Perugia, nella suggestiva cornice della ex-chiesa di Santa Maria della Misericordia. Se il titolo, in quanto elemento paratestuale, guida la lettura e, per certi versi, la orienta, cosa intendi per ‘segno’? Le tue configurazioni visive, costruite su delle superfici piane, sono rette da un codice grazie al quale possono essere lette?

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«L’arte è da sempre stata una mia passione che, per scelte non troppo coscienti in età adolescenziale, non ho coltivato abbastanza. Non sono sicuro che questo sia stato un male, perché la voglia di creare mi ha indirizzato verso la comunicazione e il design industriale, permettendomi di sviluppare un’abilità applicata al progetto e di accrescere una manualità e un sapere, per così dire, tecnico. Il titolo rispecchia quella che è stata la mia riflessione nel progettare queste opere: i loghi non sono altro che segni semplici e immediati o strutturati e dettagliati, ma sempre immediatamente riconoscibili. La mia prima esposizione vuole essere una raccolta di segni. Venendo dall’ambito della comunicazione, però, mi sono accorto che il ‘lettering’ del mio marchio non era sufficiente a chiarire completamente di cosa si occupasse l’esposizione, e l’aggiunta del payoff ‘Dai sogni ai retroscena’ mi è sembrato più doveroso che necessario. Le opere, in effetti, sono per la maggior parte composte da due entità ben distinte: la figura creata in filo di ferro, modellato a mano e saldato, e il fondo con cui convive. E così, mentre il supporto, impattante, raccoglie l’attenzione superficiale a cui molti si fermano, il logo vero e proprio racconta la storia, fatta di ingiustizie sociali, disastri ambientali, sfruttamento, o schiavi di tecnologie che da utili diventano banali e prive di significati».

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Semiotica plastica e semiotica delle passioni. Quanto al primo punto: qual è il linguaggio altro proprio del ‘retroscena’? Qual è la chiave interpretativa per accedere al senso ultimo delle tue creazioni, dopo avere esaminato le tracce lasciate dal tuo uso sapiente del filo di ferro? Quali sono le categorie topologiche, cromatiche ed eidetiche desumibili dalle tue creazioni artistiche? Quanto al secondo punto: qual è la dimensione passionale della significazione della tua opera?

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«Il linguaggio utilizzato per analizzare, nelle varie collezioni, i diversi significati è stato affidato ai contrasti. Tanto più contrasto c’è tra fondo e primo piano, tanto più è grande la differenza tra realtà e percezione. In Pro-logo, ad esempio, abbiamo dei fondi monocromatici lucidi propri dell’azienda a cui fanno riferimento e che rappresentano la bellezza, la familiarità e il calore, valori, questi, che trasmettono messaggi sia coi loro prodotti che con le linee comunicative. A questi si contrappone il logo rivisitato in filo di ferro grezzo, non trattato, che, negli anni, vedremo arrugginire e sporcarsi. Questo tipo di materiale vuole rappresentare i retroscena della storia delle aziende: colpi di stato e omicidi (United Fruits Company, poi Chiquita), consapevolezza dei danni provocati dal fumo e volutamente taciuti (Philips Morris), disastri ambientali e cospirazioni (Eni). In #unsocial, collezione dedicata alle piattaforme-social, troviamo una linea comunicativa leggermente diversa: qui il fondo, sempre monocromatico, è opaco e ne esplica semplicemente l’esistenza. In questo caso la lettura negativa legata al materiale grezzo è da attribuire all’uso esagerato, insensato e troppo spesso banale che ne viene fatto. Tuttavia l’estetica pura di un’opera, l’appeal e le emozioni che suscita anche senza per forza essere compresa sono, dal mio punto di vista, chiavi di lettura importanti. I colori vivi e le dimensioni fanno sicuramente una buona presa sull’osservatore».

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Hai un ductus facilmente riconoscibile ed identificabile, se è vero che il segno è tale perché si ripete. Dici di utilizzare il filo di ferro, materiale col quale lavori e che plasmi, come fosse una matita, vergata con lo scopo di elaborare un tuo personale alfabeto, specie nelle silhouette…

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«Le silhouette sono le opere più apprezzate, perché sintetiche e immediate. Affascinano come uno schizzo fatto, in un lampo, su un taccuino. Destano meraviglia, in quanto sembrano semplici, nonostante sia impossibile riprodurle con tanta naturalezza. Un punto di forza che mi è stato riconosciuto sta nell’identificare le linee di sintesi atte a far convivere la distinguibilità del tratto con la realizzazione tecnica».

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Quanto alla scelta dei topic, degli argomenti trattati, c’è un filo rosso conduttore che li unisce? Dai pro-logo, dietro i quali si nascondono ingiustizie sociali e disastri ambientali, agli unsocial, che lasceranno cicatrici nell’insieme dei nostri alter-ego digitali incapaci di mettere in essere spazi anzitutto umani; e ancora: dalle icone della moda, del cinema e della musica – IcOn – alle silhouette, dai contorni audaci e sinuosi: cos’hai voluto raccontare, presupponendo anche un coinvolgimento passionale e un certo grado di empatia nel fruitore?

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«In realtà non c’è un fil rouge tra le varie collezioni: ogni volta parto da una riflessione, più spesso da un avvenimento e, da lì, sviluppo un’idea, che, se trova riscontro in più icone, diventa un quadro. Per quanto riguarda i miei interlocutori, io non voglio raccontare nulla, do degli spunti, poi sta a loro approfondirli o fermarsi alla superficie. Una cosa divertente è, invece, osservare la reazione di chi passa: il riferimento è ai bambini che indicano sorridenti Youtube o McDonald o alle più disparate reazioni davanti ai protagonisti di Demo()crazia»

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Quanto la tua attività di designer e di grafico si riverbera, per certi versi, sulla tua arte visiva? Dietro l’apparente elementarità delle tue creazioni si cela una complessità di significati che le potrebbe ascrivere all’etichetta di ‘arte concettuale’? O preferisci che la tua arte resti svincolata da coercizioni definitorie e da etichette di sorta?

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«Il mio background è stato di fondamentale importanza per quello che ho fatto finora, e questo per le conoscenze tecniche, per la manualità e per la sintesi comunicativa a cui sono approdato. Non sono contrario alle etichette, in quanto le reputo un riconoscimento per il lavoro svolto. Ciò che evito è l’autodefinizione: il mio obiettivo è quello di progettare opere originali, con l’intento che vengano apprezzate dal pubblico. Poi che le si identifichi in New-Pop, Arte Povera o Concettuale poco importa».

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La poetica che persegui appare rigorosamente uniforme, ma le modalità esecutive sono plurime, così come differenti sono le finiture con cui ti interfacci: dal tondino di ferro cotto e poi saldato alle strutture in ferro attaccate su tavole monocrome e dipinte industrialmente…

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«Utilizzo diverse finiture per la definizione della collezione, ovvero il pannello, che, seppur sia sempre di legno, è verniciato lucido in Prologo, opaco in #unsocial, e viene lavorato in diversi modi per ricordare o richiamare gli artisti a cui si riferisce in IcOn o, ancora, con delle bandiere originali in Demo()crazia. Il resto è sempre ferro grezzo saldato».

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Colori lucidi e opachi, rispettivamente, per le raffigurazioni dei loghi di aziende e società industriali come, ad esempio, l’ENI, le Assicurazioni Generali, la Apple, o di personaggi quali Keith Haring e i Rolling Stones, e per strumenti mediatici come Facebook, Instagram e Whatsapp: reinterpreti il logo dal punto di vista di un artista sociologico che induce i propri osservatori a riflettere su ciò che ci, che li circonda? C’è un intento dissacratorio e una chiave anti-pubblicitaria, anche?

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«Parto da una riflessione, da una ricerca personale. Oggi non mancano i mezzi per informarsi su tutto. Quando sono certo di averli interiorizzati, ne faccio composizioni che, nella migliore delle ipotesi, diventano collezioni. Il fruitore delle mie opere si trova davanti a delle affermazioni: esistono Philips Morris, Facebook e Keith Haring, ascolti Rolling Stones, mangi Chiquita. Molti si fermano qui. Alcuni già sanno. Altri sono incuriositi, stimolati ad approfondire».  

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