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Cinema come rappresentazione – un bisogno d’immagine quotidiano

La cinematografia come forma di rappresentazione, si distingue tra le più fertili, stimolanti e popolari manifestazioni artistiche del nostro tempo: il cinema ci appartiene perché si insinua nelle nostre case e nella nostra mente, come una parte irrinunciabile della quotidianità.

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Recensioni:              Revenant   &   The Hateful Eight

di A.R.

Leonardo Di Caprio sul set con il Regista Ignazio Inarritu

Ho visto Revenant e The hateful eight prima delle loro vittorie agli Oscar: due western drammatici, dalle trame essenziali anche se sviluppate in modo tortuoso, entrambi ambientati nei gelidi inverni dell’America del nord.

Anche se in modo estremamente diverso, i due racconti raschiano nel profondo dell’aridità umana e di una vita mercenaria, nella continua lotta per la sopravvivenza e dalla prevaricazione, dove anche l’integrità diventa un’arma che uccide.

Al primo mi ha condotto il protagonista, Leonardo Di Caprio, che adoro da sempre, bravo, perfetto!, bello anche quando è distrutto dalla sofferenza, lacero nel cuore e nelle vesta. Revenant, film che ha vinto tre Golden Globes, e che ha conquistato anche l’Oscar per la miglior regia e fotografia, diretto, co-scritto (con Mark Lee Smith) e co-prodotto da Alejandro González Iñárritu, è il remake di Man in the Wilderness del 1971 (Uomo bianco, va' col tuo dio!), basato sul romanzo omonimo di Michael Punke ed ispirato a eventi realmente accaduti.

Il freddo, penetrante ed avvolgente, disegna un affascinante paesaggio che ambienta tutto il racconto, la fotografia splendidamente nitida di un “far west” che non esiste nella realtà (dato che gran parte è girato al Polo per trovare sufficiente neve…ndr) è in effetti la reale co-protagonista del film.

Malgrado tutto, il film mi è apparso un po’ lento, poco dinamico ed estremamente descrittivo. I tempi sono quelli forse naturali, reali. La trama inizia con un agguato per mano “pellirosse” ad una spedizione di cacciatori di pelli, costringendoli ad abbandonare velocemente il Nord Dakota, territorio a loro sconosciuto. Falcidiati dall’attacco indiano, i sopravvissuti si affidano all’unico esperto, l’esploratore Hugh Glass (Leonardo DiCaprio), per trovare una possibile via di fuga e tornare al loro fortino. Ogni decisione, presa in fretta e con durezza da Glass, verrà contrastata e assunta con livore dalla scabra figura di John Fitzgerald (Tom Hardy), soprattutto quella di alleggerirsi e abbandonare le pelli e il guadagno che rappresentano. Un ulteriore e gravoso ostacolo viene rappresentato dall’attacco di un grizzly che ridurrà il protagonista in fin di vita: l’aggressione cruenta è estremamente inquietante e verosimile, almeno quanto le ferite inflitte dall’animale, ed altrettanto inquietanti sono le cure “a vivo” che contribuiranno alla sopravvivenza di Glass. Quel che rimane del gruppo quindi si separa, per la sopraggiunta difficoltà a procedere velocemente e a veglia del ferito rimane suo figlio, avuto dalla moglie indiana americana, un altro giovane cacciatore e Fitzgerald, per dargli l’apparente, inevitabile, giusta sepoltura. Quest’ultimo però, infame sin dalla sua prima apparizione, lo tradirà uccidendo l’amato figlio di Glass e abbandonandolo al suo destino, certo che non avrebbe sopravissuto. Ma la forza dell’amore di un genitore, un padre che aveva promesso al figlio di non abbandonarlo mai, lo mantiene in vita, per vendicarlo di tanta inutile crudeltà. Il Redivivo percorrerà oltre trecento chilometri per tutto il west, in un viaggio “terminale” ed epico all’inseguimento dell’assassino. Tutto sembra costruito sulla durezza e sullo sgomento di una vita estrema quasi primordiale, la mente è costantemente impegnata per cercare necessariamente di difendersi e di contrattaccare. I codici sono estremamente essenziali: il cattivo uccide, truffa, imbroglia, violenta. Il buono difende, protegge, rispetta, onora. Molto diverso dalla metrica stilistica del primo Oscar di Iñárritu. La stessa storia si intreccia tra due padri (Glass e un indiano) che cercano giustizia per i loro figlio/figlia: in questo e per questo il protagonista troverà la forza, il coraggio e l’unico scopo per resistere, vincendo su ogni umana paura; in questo e per questa figlia rubata e violata, gli stessi indiani muoveranno la loro vendetta. La fine dona giustizia agli eroi, nella retorica e nel sentimentalismo più classici della filmografia internazionale. Un lavoro complessivo comunque ben calibrato, che soppesa l’azione-reazione e l’immagine-effetto, per giungere ad un esecuzione da premio.

The Hatefull Eight  - I protagonisti sul set

Per The hateful eight mi ha spinto invece la colonna sonora di Ennio Morricone, splendida e calzante come un guanto di velluto. Assolutamente l’aspetto più bello del film, per me che non amo la filmografia di Quentin Tarantino, malgrado ne riconosca una simpatica e cruenta abilità registica.

Il film si muove tutto entro pochi passi, anche  gli attori sono una quidicina in tutto, anche se di tutto rispetto, … più tre cadaveri. C’è un buon equilibrio nelle figure protagoniste e la trama si scioglie nella descrizione di ogni soggetto, fino al raggiungimento delle loro reali identità. Tantissimi, come sempre fa Tarantino, sono i rimandi filmici, da Sergio Leone –colonna sonora compresa- agli western di e con Clint Eastwood, nonché gli immancabili horror di Dario Argento, dove riprende e ripropone immagini esattamente uguali anche se completamente decontestualizzate dai loro riferimenti originali. In alcuni tratti il film risulta anche divertente per quanto assurdo e paradossale.

Il secondo western di tarantino è ambientato nel gelido Wyoming. La guerra di secessione è finita da qualche anno. Una diligenza si fa strada tra la neve, a bordo ci sono il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) -"The Hangman" (Il Boia)- e la sua prigioniera, la ricercata Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh); i due sono diretti verso la città di Red Rock, dove consegnerà la donna alla giustizia. Lungo il percorso si aggiungeranno altri due sconosciuti: il Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), ex soldato nero dell'Unione (nordista - ndr) divenuto anche lui un noto cacciatore di taglie, e Chris Mannix (Walter Goggins), un rinnegato sudista che asserisce di essere il nuovo sceriffo di Red Rock. Non si sono mai visti ma di fama si coniscono. Sopraggiunge la furia di una tempesta di neve e la compagnia si rifugia a metà strada tra le montagne, all'emporio di Minnie. Ad attenderli però non ci sono i proprietari, bensì quattro particolari sconosciuti: Bob (Demian Bichir), un messicano che si occupa del locale in assenza della proprietaria in visita alla madre; assieme a lui si riparano il boia di Red Rock Oswaldo Mobray (Tim Roth), il cowboy Joe Cage (Michael Madsen) e il generale confederato Sanford Smithers (Bruce Dern). È subito chiaro a tutti quanto insolita sia la situazione da diversi anomali indizi, e mentre la bufera fuori gela ogni cosa, gli otto personaggi comprenderanno rapidamente come sarà complesso sopravvivere e raggiungere la loro destinazione. Il regista sembra voler mettere in fila le reazioni degli spettatori: una risata, una lacrima, un pugno allo stomaco, un respiro di sollievo. Insomma i conti tornano tutti, gli onesti muoiono subito e vedremo come soltanto alla fine (i proprietari dell’emporio, gli aiutanti, i conduttori delle carrozze). Gli ingenui pragmatici (come John Ruth) sono i successivi. I criminali-cattivi cadono ad uno ad uno nell’inevitabile trappola della trama, avrebbero potuto sopravvivere se soltanto avessero considerato due imprevisti: lo “sceriffo” e il “nero”, che a loro volta non avevano considerato un’assenza, poiché la carrozza e i cavalli arrivati prima di loro erano lì fuori, ma… dov’era finito il conducente? Dove si stava riparando da quella tormenta tanto impietosa? Insomma, gli inganni e i tradimenti si susseguono e un po’ la fine si lascia presentire appena li vediamo tutti insieme chiusi dentro quel bazar-stazione di servizio: non ne uscirà nessuno vivo!

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