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ARTE

 

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“Certe giornate indimenticabili”

 
Bettina e Brajo, il salotto di casa Fuso, con Moravia, Argan, Guttuso, Burri... Dipinti, disegni e ceramiche

di Martina Pazzi

Gli incontri a casa di Bettina e Brajo Fuso, Renato Guttuso li ricordava così,

tutti sincerità e bellezza e gioia vera della vita.

Un’esposizione, allestita fino al 26 giugno nelle sale del Museo Civico

di Palazzo della Penna, di Palazzo Cesaroni e del Fuseum (Centro d’Arte di Brajo Fuso), a Perugia, rievoca la temperie artistica che si respirava in quel salotto culturale a cavallo fra le due guerre mondiali.

Tra gli habitué del milieu del Torrino di Palazzo Cesaroni -Giulio Carlo Argan, Giuseppe Ungaretti, Alberto Burri.

“La città scura e turrita sta ammucchiata sulla cima di un monte ed è attraversata da un capo all’altro della strada del corso dove sorgono la cattedrale e i palazzi più belli. Dal corso, lateralmente, si scende fino alla strada della circonvallazione che gira tutt’intorno il monte, per certi vicoli angusti oppure per fughe precipitose di scalini”. Alberto Pincherle ne La provinciale, scattava un’istantanea urbanistica di Perugia. Fotografava l’acciottolamento dei vicoli, Moravia, le forme acuminate dei campanili, l’irregolarità “precipitosa” degli scalini, l’ammucchiamento delle fortezze e delle torri, in un volo pindarico che dal punto di vista letterario pare slittare, sulla base di un processo di “staniamento”, fino a quello artistico-figurativo, istituendo con quest’ultimo un rapporto di analogia, secondo il quale la comunicazione visuale è inscindibilmente legata alle categorie cognitive spaziali. Cambia il punto di vista, dunque. Cambia il montaggio degli oggetti che il nostro sguardo è in grado di calamitare. Ma non la sostanza del referente che si sta descrivendo, o dipingendo. Lo sapevano bene, Moravia ed Elisabetta Rampielli, l’allieva prediletta di Arturo Checchi, docente di pittura all’Accademia delle Belle Arti di Perugia dal 1925 al 1938, quando la giovane donna, bolognese di nascita, perugina d’adozione, decise di intraprendere la carriera artistica, fino ad allora coltivata da autodidatta, lei, che s’era diplomata alle Magistrali e che fino a quel momento aveva lavorato in banca, pur appassionandosi sempre più di letteratura. Conobbe Moravia nel 1926, Bettina, sull’androne di un palazzo seicentesco di via dei Priori, al civico 13, dove l’autore de Gli indifferenti stava soggiornando da circa due mesi: lui, i tetti del capoluogo umbro, li avrebbe descritti, con piglio (anche) narrativo, nel romanzo breve edito per i tipi di Bompiani nel 1937 (La provinciale), lei, se li sarebbe “mangiati con gli occhi”, come ha evidenziato Massimo Duranti, per poi trasporli su tela, negli anni Sessanta del secolo scorso, secondo una certa scansione ritmica volta a ripercorrere l’irregolarità della plasticità di quei contorni e di quelle linee, di quei colori, che tanto richiamano le tinte dei Fauves.

 Ed è ai paesaggi e ai tetti di Perugia, cifra stilistica peculiare dell’itinerario pittorico di Bettina Rampielli, che è dedicata una sezione della mostra “Bettina e Brajo. Il salotto di casa Fuso, con Moravia, Argan, Guttuso, Burri... Dipinti, disegni, ceramiche”, inaugurata lo scorso aprile nel Salone di Apollo di Palazzo della Penna, a Perugia, ed allestita, in tre sedi espositive: Palazzo della Penna, Palazzo Cesaroni, (con opere di Bettina e Brajo della collezione del Consiglio Regionale, in ricordo del luogo nel quale i coniugi Fuso vissero fino agli anni Sessanta) e Fuseum (Centro d’arte di Brajo Fuso), a Monte Malbe (con una collezione di ceramiche di Brajo Fuso). La mostra, a cura di Andrea Baffoni, Francesca Duranti e Massimo Duranti, propone una selezione di 126 opere, fra dipinti, disegni e sculture, di mano dei coniugi Bettina e Brajo Fuso, e degli intellettuali e artisti che gravitarono attorno al loro salotto culturale, nel Torrino di Palazzo Cesaroni: da Renato Guttuso ad Achille Pace, da Alberto Burri a Giulio Carlo Argan, da Felice Casorati a Gianna Manzini, e ancora da Enrico Falqui a Giuseppe Ungaretti, Alessandro Blasetti, Cesare Zavattini. Un inedito spaccato della temperie culturale italiana di metà Novecento. Un racconto o, per meglio dire, il racconto, poiché basato sull’esame diretto di fonti d’archivio, di una vicenda umana prima ancora che artistica. La storia di un amore, sbocciato nel 1929, e di una complicità artistica, maturata fra gli arredi di un salotto che divenne ben presto un punto nevralgico ed un polo di attrazione per i personaggi di spicco e di levatura culturale del tempo.

Elisabetta Rampielli, Brajo Fuso e la “Perugia un po’ provinciale di quegli anni” che si dilatava a casa loro...

​Si conobbero nel 1929 i futuri coniugi Fuso, “sulla scomoda sedia da dentista dello studio di Brajo”, come ha ricordato uno dei curatori, Massimo Duranti, nel catalogo della mostra: dipingeva già Bettina, che, qualche anno dopo, si sarebbe iscritta all’Accademia delle Belle Arti di Perugia, sotto la guida di Arturo Checchi, convinto promotore del “Ritorno all’ordine” sancito dal regime; era un noto dentista perugino, Brajo (diminutivo di febbraio, il mese della sua nascita, nel 1899), oltre che stimato docente di Stomatologia a Roma. Fu Bettina a convincerlo, nel 1943, dopo una forzata e noiosa convalescenza (il riferimento a La noia del loro amico Moravia, parrebbe essere d’obbligo), al suo rientro dalla guerra (era, infatti, stato chiamato alle armi come capitano medico ed inviato in Albania), “a sporcare piccole tele e tavolette”. Betty non avrebbe, però, “certo immaginato – è ancora la fine penna di Massimo Duranti, a scrivere – che il marito si sarebbe espresso con un linguaggio fatto di rottami, dopo esordi figurativo-espressionisti non esaltanti”. Ma “per Fuso – sottolinea Marcello Fringuelli, cultore della memoria dei coniugi Fuso – l’arte era invenzione perché l’invenzione era intrinseca alla sua natura, al suo modo di essere: ecco che si spiega così – prosegue Fringuelli – l’enorme mole di lavoro creativo svolto nell’arco di una vita in tanti settori diversi, da quello medico-scientifico, ricco di sperimentazioni, di brevetti per apparecchiature, di studi innovativi e ricerche a livello mondiale, di scoperta e di lancio sul mercato di medicine, di tecniche operatorie e di trapianto, a quello architettonico, fino al design, alle ceramiche, ai gioielli...”. Al recupero, e al conseguente riuso, con intento ludico, giocoso, artistico d’avanguardia, di materiale di scarto, sapientemente e certosinamente riassemblato nelle sue Straticromie e nei suoi Cromoggetti, è dedicata la Débrisart di Brajo, secondo un termine appositamente coniato da Verdet nel 1976. Ma quella dei Fuso non fu solo la parabola di una coppia di artisti, che estese le proprie “propaggini culturali” sul mobilio di un salotto che ospitò, nel periodo fra le due guerre, gli intellettuali più significativi del panorama nazionale del tempo – i documenti dell’Archivio Fuso e di quello di Bettina Rampielli attestano, nero su bianco, l’espressione scritta di “soffi di calde amicizie”, respirate, ad esempio, da Renato Guttuso, il promettente pittore di Bagheria che, negli anni Trenta, si trovava a Perugia in veste di restauratore, ma anche la storia di una donna, straordinaria e curiosissima, che, dopo aver partecipato a tre edizioni della Quadriennale di Roma nel 1955, 1959 e 1965, ed aver ricevuto la medaglia d’oro al Premio Termoli nel 1964, seppe “arretrare per lasciare spazio al compagno di vita, sacrificando la carriera all’amore, alla famiglia, all’equilibrio domestico”.Un gesto pregno di una eroicità delicata, al femminile, cui la città di Perugia tributa questo omaggio artistico.

Il salotto di casa Fuso, con Moravia, Argan, Guttuso, Burri...

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